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lunedì 23 dicembre 2013

Una compilation da brivido

Ho cercato spesso di capire cosa sia per me la bellezza tradotta in musica. Ho cercato di ascoltare i generi musicali più disparati, e incanalare il mio ascolto attraverso dotti suggerimenti, seguendo la storia della musica, dai canti gregoriani ad oggi, e proseguendo per folkpoprockbluesjazz. Talvolta mi sono soffermato sulle sequenze armoniche, cercando la pietra filosofale, la sequenza che mette tutti d'accordo: una vana ricerca. 
Parallelamente a questo affascinante viaggio, ho un mio personalissimo strumento di piacere: il brivido.
Può infatti accadere che mentre ascolto musica, io senta tutti i capelli contrarsi, e tutti i peli del mio corpo intirizzirsi; e che in quel preciso istante io venga attraversato da un'onda di benessere. Il mio brivido non è acculturato, non conosce destra o sinistra, impegno o disimpegno: è incolto e inconsapevole, talvolta tanto imbarazzante quanto piacevole, e non può essere richiamato a comando. Il brivido arriva quando vuole, e quando arriva è imperioso, immediato e piacevolmente totalizzante. Per i miei quattro lettori, esporrò in tutta sincerità almeno 10 occasioni musicali in cui il brivido mi arriva più frequentemente.
Bring on the night, di Sting. Il brivido mi dura per tutto l'assolo di piano di Kenny Kirkland
Tutta n'ata storia, di Pino Daniele. Qui l'emozione è forte durante l'introduzione, poi ripetuta verso la fine. Una sequenza di accordi semplice con una nota di organo tenuta fissa.
Mary j. Blige e U2 in One. La voce, la voce di Mary, verso la fine della canzone.
Il quarto movimento della nona sinfonia di Beethoven. Un brivido continuo, in particolare quando verso la fine le voci si rincorrono.
Il secondo movimento della settima sinfonia di Beethoven. Il brivido arriva lento, ma inesorabile.
Oye como va, Santana. Qui mi si rizzano i capelli durante l'improvvisazione con l'organo Hammond.
Time after time, cover di Tuck e Patty.   Una voce profonda quanto il Mississippi e una chitarra che fa per due.
Fuori, di Irene Grandi  I miei brividi vincono sui miei pregiudizi, lo ammetto: una voce graffiante e un testo catartico(o artico: l'ho canticchiata in una strada deserta vicino a Capo Nord, da solo, in bicicletta ).
Enjoy the silence, Depeche Mode. Non so perchè, ma immediatamente prima del ritornello mi piglia il brivido.
La pioggia di marzo, Mina. La potenza poetica del catalogo, insieme ad una semplice sequenza armonica tanto ipnotica quanto suggestiva. Tutto un brivido.
Ce ne sarebbero altri, ma mi fermo qui, prima che tutti 'sti brividi mi facciano venire il raffreddore.
Buon ascolto





sabato 14 dicembre 2013

Tu guardi e vedi

Tu guardi e vedi

Tu guardi e vedi il cielo
tutto intento sui tetti
di nebbia e ghiaccio muovere una notte.
È inverno, dici, e il gelo
avrà presto ristretti
i fili d'erba e i rivi.
E tu che ancora hai tepore alle dita
tu lentamente scrivi
al lume delle nevi
oscurati pensieri, incerte voci.

Questo è tempo di sonno.
Ma come al sonno lasciare vittoria,
come perdere ancora
il filo della storia
che ogni giorno riprende
la ragione paziente?
Forse pensi che è tardi,
forse che invano guardi
come tutto s'impietri
questo tempo nel cuore, questo inverno.
Ma altri occhi sono fissi ai vetri, altre unghie
incidono i ghiaccioli,
altri uomini contano le stille
delle gronde e resistono alla notte.

Franco Fortini

mercoledì 13 novembre 2013

Fate finta che sia una finzione




Ieri era il venticinquesimo anniversario della morte di mio padre, un nodo per me ancora non del tutto risolto, nonostante tutto questo tempo trascorso senza di lui.
Qui sotto riporto un racconto che scrissi circa otto anni fa. Buona lettura.


Fate finta che sia una finzione  


Io non ci credevo.
Non aveva mai avuto un malanno, a parte quel giorno in cui rimase a letto con la febbre, che già mi turbò assai. Avevo sette anni e stavo per andare a scuola. La maestra quella mattina - dopo i conticini, assai impegnativi per la verità - ci fece fare un disegno a piacere. Mi misi a disegnare un uomo in un letto.
"Chi è, Toni, questa persona?"
"E' il mio papà, maestra." Mi vennero le lacrime agli occhi. "Ha la febbre."
La maestra mi prese in braccio e mi carezzò un po'. "Tante persone hanno l'influenza in questo periodo, stai tranquillo, forse domani sarà già guarito."
Mi vergognai un po' della figura da deficiente che avevo fatto, sapevo bene cosa voleva dire influenza, avevo visto mio fratello a letto e anche le mie sorelle. Ma non potevo spiegare alla maestra che per me il mio babbo era un supereroe come Zorro, che vedevo alla Tv dei ragazzi alle 17,45 sul primo canale con una fettona di pane e pomodoro in mano. Il mio babbo aveva i baffi, proprio come Zorro. Ma mai che avessi visto un episodio dal titolo: "Zorro ha la febbre". Ci pensate? Bernardo che porta una minestrina calda a Zorro, e magari lo imbocca anche? No, maestra, Zorro non si ammala mai. Il mio papà sì.

Un paio di mesi dopo stavo passeggiando con lui in Corso Italia, a Piombino e, arrivati in Piazza Verdi, vidi il cartellone del nuovo film del Metropolitan: "2001 odissea nello spazio".
"Papà, ma tu ci sarai nel 2001?"
Rise e continuò a camminare.
"Non lo so...fammi pensare. In quell'anno dovrei avere..."
Lo guardai con attenzione, ero concentrato sulle sue labbra.
"...settantotto anni. E' un'età avanzata..."
Non sapevo cosa avrebbe aggiunto.
"...ma molte persone arrivano a quell'età: il nonno, la nonna ci sono arrivati. Ma sì, credo proprio che ci sarò. Ci sarò."
E sorrise stringendomi ancora più forte la mano.
Quelle parole mi rinfrancarono moltissimo. Ci sarebbe stato. Mio padre non prometteva mai a vuoto. Mio padre diceva sempre la verità. E del resto, per altri nove anni ancora, tutto lo avrebbe fatto pensare. Non si sarebbe più ammalato, nemmeno un raffreddore.
Fino a quella sera.

Ero appena tornato dal campo invernale scout, il trenta dicembre millenovecentosettantasette. C'erano due amici dei miei genitori, a cena. Dopo il secondo - bracioline di manzo con contorno di patate - mio padre chiuse gli occhi, si prese la testa tra le mani, ebbe giusto il tempo di dire "Scusate" e si precipitò in bagno. I signori Nardi, sollecitati con discrezione da mia madre, andarono via in gran fretta.
- Se possiamo fare qualcosa...
- Grazie, Ugo. Vi farò sapere.- rispose la mamma, poi corse in bagno. E io dietro a lei.
Non ci credevo.
Vidi il mio supereroe davanti allo specchio, aggrappato al lavabo, la testa piegata giù, gli occhi chiusi. Si voltò di scatto verso il cesso e cominciò a vomitare. Vomitò il manzo, le patate, la pasta. Vomitò anche altra roba, verde e gialla, e continuò a vomitare per molte ore. Lo guardavo andare avanti e indietro, dalla camera al bagno. Poi mi prese la stanchezza e lo abbandonai. Mi addormentai, cazzo.

Apro una parentesi: il ventotto maggio duemilacinque, dopo aver lavorato tutto il pomeriggio con trenta gradi in studio, dopo aver mangiato una pizza con salamino piccante e mozzarella di bufala in dolce compagnia di mia moglie, dei miei figli e di amici vari, dopo una passeggiatina sul mare con fresco vento di maestrale, sono andato a letto. Verso le tre mi sono svegliato in preda a dolori lancinanti all'addome e sono corso in bagno. Ho cominciato a sudare freddo, mi sono sistemato sul cesso nella speranza di fare qualcosa. Mi girava la testa, il dolore all'addome migrava da una parte all'altra, migrava così velocemente che la mia autodiagnosi variava di continuo tra ischemia o infarto del miocardio, ulcera perforante, pancreatite acuta o congestione. Dopo mezz'ora l'ultima ipotesi si rivelò quella esatta. Mi piegai con la testa sul cesso e cominciai a vomitare il pomodoro, la birra, la mozzarella e il salame piccante; nello stesso momento ebbi un attacco di diarrea, che feci sul pavimento. Non credevo che si potessero fare le due cose contemporaneamente.Durante i conati - che arrivarono ad ondate nei venti minuti successivi - non potevo fare a meno di urlare.
"Toni, che sta succedendo?"
"Laura non mi sento bene" risposi con la bocca impastata di salame ed acido cloridrico " ma va meglio; torna a letto, devo pulire..."
"Sicuro che..."
Mi prese un altro attacco, per fortuna avevo chiuso la porta a chiave, non volevo farmi vedere da Laura in quello stato.
"Stai tranquilla" ebbi la forza di dire “sto meglio. Vai a letto.”
Pian piano mi ristabilii, mi rimase addosso solo una forte debolezza; mi misi a pulire in terra, nel water e mi lavai. In quei venti minuti pensai a mio padre, a quanto dev'essere dura vomitare un'intera notte, a quanto dev'essere avvilente e degradante. Chiudo la parentesi.

La mattina seguente mi sembrò che il malessere di mio padre fosse stato solo un incubo, niente di più di un incubo. Aveva il viso stanco, ma si era fatto la barba; pettinato e profumato di Acqua Velva William uscì. Sapevo che non era indistruttibile, l'avevo già imparato, ma quel suo aspetto mi sollevò. Durante la cena si diffuse un sollievo generalizzato: il dottore aveva diagnosticato una severa artrosi cervicale - colpa delle varie nottate in servizio in Calabria, periodo in cui ricevette, da vero supereroe, tre encomi solenni per la lotta al brigantaggio - una malattia curabile, dunque. E quella sera si mise a narrare – perché come molti siciliani aveva il dono innato della narrazione post-prandiale; oh, se sapeva raccontare, davanti a una sigaretta e molliche di pane sparse per il tavolo! – si mise a narrare, dicevo, di varie brutte nottate. Il ricordo della sera precedente fu spazzata via da quei ricordi. Fu un lieto fine millenovecentosettantasette. L'anno nuovo fu inaugurato all'insegna di antinfiammatori, antidolorifici e tanta fiducia.
Ma dopo l'epifania ricominciò il vomito e un mal di testa che gli fece stringere gli occhi e sussurrare parole di rabbia, e bestemmie.

Dopo un giorno e una notte intera di vomito - che roba era? e quanti liquidi multicolori abbiamo dentro di noi? - i fidanzati delle mie due sorelle lo portarono all'ospedale di Pisa.
Mio padre all'ospedale.
Non ci credevo.
Non ci credetti per undici mesi. Avevo dalla mia parte quella promessa solenne, una promessa carica di verità; ma di tanto in tanto temevo per il destino del mio supereroe. E quanto a verità, tutta la famiglia si impegnò a sparare un sacco di balle a mio padre per nascondergli la gravità del suo male. Inventarono un ematoma polmonare, artrosi degenerativa e cazzate simili.
Il mio supereroe pian piano perse l'uso delle gambe perché quella cosa stava comprimendo e divorando i centri motori nella testa.

Respirava sempre peggio - faceva uso per alcune ore al giorno della bombola di ossigeno - perché quella cosa si stava mangiando anche un polmone.
Quella cosa nel cervello e nei polmoni faceva anche altri scherzi, a seconda di quanto e dove comprimeva: mal di testa di durata variabile, vomito, singhiozzo - uno dei quali durò più di due giorni -, brusche alterazioni dell'umore con passaggi repentini dal pianto al riso, attacchi epilettici, demenza. Una volta non riusciva a capire che le immagini del televisore non si trovassero in sala, ma in uno studio televisivo. Poi gli scherzetti se ne andavano e tornava mio padre, sempre più insicuro e tremante, con dentro quella cosa.
Si arrivò al mattino del dieci novembre millenovecentosettantotto.
Vidi mio padre baciare mia madre.
"Auguri"
"Per cosa?"
"Per il tuo compleanno"
"Ma è domani"
"Magari domani non sto bene e allora...auguri, buon compleanno."
Quella sera lo vidi lamentarsi tenendosi la testa, e il dolore continuò la notte, la mattina, il pomeriggio, la sera, la notte, la mattina, il pomeriggio... Il dodici novembre millenovecentosettantotto, alle sette e dieci di sera, mio padre ci lasciò.
Il primo gennaio duemilauno pensai con rabbia che mio padre non mi aveva detto la verità. Non aveva mantenuto la promessa. Ma devo ammettere che ce l'aveva messa tutta.

Io sono nato il sei maggio millenovecentosessantuno. E' stato venduto, mesi or sono, un vecchio rudere lasciato da mia nonna a mio padre. Mia madre ha rinunciato alla sua parte e noi quattro figli abbiamo diviso in quattro parti uguali. Per il mio quarantaquattresimo compleanno, con quei soldi, ho comprato una bicicletta da corsa, bellissima: ruote e forcelle in carbonio, telaio in alluminio, una specie di piuma con i pedali. L'ho comprata pensando a lui, il mio supereroe, che vinse un campionato regionale siciliano di ciclismo. Ogni tanto, quando scendo giù a Milazzo, qualche suo vecchio amico o qualche zio mi racconta di averlo visto in gara e mi giura - in Sicilia si giura di continuo - che vederlo correre fosse un gran bello spettacolo. Dal giorno del mio quarantaquattresimo compleanno, il giovedì prendo la bici e salgo i novecento metri del Monte Serra, che divide Lucca da Pisa, vicino a casa mia.
Parto la mattina verso le sei e mezzo, mi occorre una mezz'ora di bici per arrivare alla base della salita.
Non passa mai un'anima in quella strada. C'è solo il bosco - lecci e castagni, perlopiù - un ruscello e la strada.
Mi fermo ad una fontanella.
Bevo.
Rimonto in bici.
E vado su... su... su... fra le antenne e gli aquiloni.

lunedì 28 ottobre 2013

Fine stagione

 Fine stagione

"Avete già pensato all'ordinazione?"
"Sì. Io prendo spaghetti allo scoglio."
"Anch'io."
"Da bere?"
"Acqua. Naturale."
"Nient'altro?"
"No, grazie."
Lo sguardo di Claudio si divideva tra le ultime luci del tramonto sul mare, e il viso di Daniela. Il mare aveva perlopiù un colore livido, mentre alcune nuvole in cielo captavano una luce rossastra proveniente dal sole, quasi del tutto affondato all'orizzonte. Il viso di Daniela aveva una metà in penombra, quella più distante dalla veranda, mentre l'altra metà aveva il colore del cielo.
"C'ero rimasta un po' male."
"Lo so, scusami. Se puoi."
"Posso. Ma pensa anche al fatto che avrei potuto non fare in tempo a ricevere le tue scuse."
"Ci ho pensato. Avevo male interpretato un tuo sms. Mi avevi scritto che eri sempre circondata da parenti. E io non sapevo come tu potessi gestire il tuo telefono, vista la situazione. Poi Paolo, che mi immaginavo stesse lì con te."
"Esistono le mail."
"Sì, hai ragione. Eccome se esistono. Quante ce ne siamo scritte, anni fa. In effetti sono stato un cazzone."
"Lo penso anch'io, Claudio."
Daniela allungò la mano destra sul tavolino e frugò tra le dita di quella di Claudio, poi la strinse e accennò un sorriso.
"Ecco gli spaghetti." Le mani ritornarono ai rispettivi posti, mentre il cameriere disponeva la zuppiera al centro del tavolo, e riempiva i due piatti con un po' di spaghetti e un po' di gusci che emettevano uno suono simile alle nacchere, quando prendevano contatto con il fondo di porcellana.
"Buon appetito." Appena il cameriere si allontanò, Claudio lanciò qualche occhiata furtiva verso Daniela, che si apprestava a mangiare. Una di queste occhiate venne intercettata da Daniela.
"Ti starai domandando come io possa mangiare, che cosa senta." La voce di Daniela assunse un'andatura stanca, una specie di cantilena.
Claudio abbassò lo sguardo, non poté far altro che mangiare il più lentamente possibile la sua porzione.
"Mangio," riprese Daniela " mangio a piccoli bocconi, devo masticare molto, e non sento gran che i sapori. Poi come io faccia ad assimilare, è un mistero. Ma devo costringermi a farlo."
Claudio cercò di memorizzare, per quel momento e anche per altre occasioni, che sarebbe meglio non fare apprezzamenti sul cibo.
"Come è andata la scorsa settimana?"
"Da schifo. Ho diviso il mio tempo tra il letto e il divano. Non ce la facevo nemmeno a leggere, avevo la nausea, non riuscivo a capire dove fosse il soffitto e il pavimento." Daniela posò la forchetta e si passò una mano sulla fronte, imperlata di sudore. "E ieri sono stata a farmi visitare da un gastroenterologo a Genova."
"E?" accennò Claudio con voce flebile.
"E...ha visto la cartella e gli esiti dell'intervento. E' stato ottimista: mi ha alzato la probabilità di sopravvivenza a cinque anni, dal trenta al cinquanta per cento."
Claudio non sapeva se rallegrarsi per la buona novella o stare in silenzio. Alla fine decise per il silenzio.
"Ti va di finirlo, Claudio?" Più che una domanda era una supplica. Claudio scambiò il suo piatto vuoto con quello di Daniela a metà, e ricominciò la lotta con i gusci superstiti.
"Nelle settimane in cui non ho la chemio, ho fatto delle uscite di due-tre giorni con Paolo. E ho capito che per me la mezza pensione è un lusso, visto che mangio al massimo mezza portata. Inoltre subito dopo il pasto, devo rimanere un po' in albergo, per cercare di digerire. Senza stomaco e duodeno. Mi prende una sonnolenza imperiosa, come adesso...quando sono a casa mi sdraio."
"Che facciamo, allora?"
"No, finisci di mangiare, ti prego. E parliamo. Dimmi di te, così sto sveglia." Daniela accennò un sorriso.
"Mi sento ridicolo, Daniela. Di fronte ai tuoi problemi, i problemi miei, quelli degli altri non hanno senso."
"Lo so. Eppure, mi piace sapere di te. Mi piace sapere di vite normali. Rifuggo nella vita normale appena posso, ho ripreso anche a lavorare. I problemi dei miei pazienti mi divertono: litigi, separazioni, paure, sono comunque vita. E un poco di questa loro vita rifluisce in me. Ho bisogno di storie, non necessariamente belle.
Alterno una settimana di chemio ad una senza, fino alla fine di ottobre. Ecco, nella settimana "sì" cerco di dimenticare. Nonostante la dieta giornaliera me lo ricordi, nonostante la presenza di questo camicione nero in piena estate che non fa vedere l'agocannula, qui." Daniela si tocca il braccio sinistro. "Spesso dimentico. Mi basta un tramonto come questo, o una passeggiata lenta lenta sul lungomare. Un bel libro."
"Sei bellissima."
"Sono dimagrita, anche se avrei preferito essere sovrappeso."
"Sì, anch'io."
"E' buffo: ora che sono malata, avverto lo sguardo di molti uomini su di me."
"Quanto hai perso?"
"Tredici chili. Non mi sta più niente. Ho dovuto approfittare dei saldi per ricomprare tutti i vestiti. I saldi di fine stagione, un termine davvero azzeccato in questo caso. Alla cassa, il commesso mi ha detto sorridente: "Guardi, signora, che l'arancione andrà anche la prossima estate, anche questa gonna di seta è un amore, e questa maglia, poi...probabilmente il prossimo anno si rimetterà questi vestiti." Il prossimo anno. Se ci arrivo. Ti è venuto sonno anche a te?"
Claudio aveva abbassato lo sguardo e chiuso gli occhi per un attimo. "No, no, scusa...niente." Li aveva riaperti umidi di pianto.
Arrivò il cameriere, versò tutti i gusci nella zuppiera e sparecchiò. "Desiderate un secondo, un dolce?"
Daniela fece cenno di no, Claudio disse:" No, grazie. Per me un caffè. Tu?"
"No."
"Un caffè, allora, e il conto." Claudio stava sminuzzando una mollichina di pane, tra indice e pollice. Poi la ricompattava e ricominciava da capo. "Fino a quando la chemio?"
"Ce ne ho per tutta l'estate, sì e no, sì e no. Fino a metà ottobre. Poi a novembre mi rovesceranno come un calzino per vedere se ci saranno state recidive. E' come vivere in prima linea, con probabilità di sopravvivenza più basse." Daniela guardò dritta negli occhi Claudio, che si sentiva inadeguato alla situazione, e disse: "Ho lasciato il tuo telefono a Barbara. Nel caso che mi succeda qualcosa."
Uscirono in fretta, si accomodarono su una panchina del viale, prima del parcheggio. Daniela si era sdraiata supina , appoggiando la sua testa sulle gambe di Claudio, gli occhi chiusi.
"Ho sonno."
"Dormi."
"E' come vivere in prima linea, sì, ma tu sapessi come mi piacciono le licenze premio."
"Vedrai. A novembre ti congederanno. Niente più prima linea. Solo belle passeggiate e tramonti." Claudio le carezzava i capelli, che per fortuna non aveva perso.
Claudio avrebbe desiderato stare lì tutta la notte. Avrebbe desiderato stare lì, su quella panchina, fino a novembre. Daniela si era assopita. Il cielo si stava oscurando.

lunedì 14 ottobre 2013

L'apprendista di bottega torna a casa

Eh già. 
Ieri son tornato da Milano, dopo l'ultimo incontro della Bottega di Narrazione 2012-2013. Credo di avere imparato alcune cose, sono sicuro di aver conosciuto delle persone straordinarie, e mi mancherà questo appuntamento mensile. 
Alcuni anni fa Giulio Mozzi disse in un'intervista che "la letteratura è un fatto relazionale". Oggi comprendo appieno questa affermazione. 
E' ovvio che sarei felice di finalizzare questa esperienza con la pubblicazione del mio romanzo in una seria casa editrice, ma posso affermare che a livello umano e relazionale ho già ricevuto tanto in questi sedici mesi, e sono già contento adesso.
Per case editrici, agenti, lettori che fossero interessati al mio lavoro e a quello degli altri amici apprendisti, esiste un file in Pdf in cui c'è la sintesi e alcuni piccoli assaggi di ciò che abbiamo fatto.
Potete trovare questo magico file cliccando qui
Buona lettura

giovedì 3 ottobre 2013

Librarsi in autunno



Il rientro dalle vacanze del gruppo di lettura "Librarsi" non ha colto impreparati i suoi partecipanti. Sono stati letti brani estremamente impegnativi, che trattano di relazioni, vere, presunte, o conflittuali. Relazioni di un ragazzino invischiato dalla passione per le storie che legge in una biblioteca, poi un profondo e sofferto legame padre-figlio; c'è una ragazza che intende disfarsi della importuna, per lei, presenza dell'angelo custode, poi la singolare coincidenza di due lettori che portano entrambi poesie d'amore, che trattano di legami desiderati e profondi, di voli vertiginosi, e infine la relazione conflittuale tra un erudito e un suo adepto.

Le ceneri di Angela, di Frank mc Court, letto da Cristina. Infanzia di un ragazzino irlandese desideroso di conoscenza, che impara un sacco di cose dai libri che consulta in biblioteca. Con le vite dei santi si imbatte in situazioni strane e divertenti. La parola vergine è un gran mistero per un curioso ragazzino, e nemmeno nei libri c'è qualcuno che gli dica chiaramente le cose come stanno.

Geologia di un padre, di Valerio Magrelli, letto da Toni. Consapevolezza della circostanza che non potrà mai più portare suo padre a casa sua, visto che c'è da fare una rampa di scale . I particolari che segnano la trasformazione irreversibile di una persona cara e che danno disturbo, come gli occhiali spessi, uno strano cappello. Particolari che segnano la differenza. Questo brano è una sorta di  affettuoso e doloroso commiato dal padre. C'è Un signore anziano, una persona che non vedi più come lo conoscevi prima, che non riconosci e ti domandi dove sia finito quello di un tempo.

Messaggeri dell'oscurità, di Alicia Gimenez Bartlett, letto da Stefano. Nel brano in questione c'è Una ragazza che vuole stare sola ed è perfettamente riconciliata con le sue stranezze. Nel brano si legge di lei che scuote gli indumenti fuori della finestra per mandar via l'angelo custode, visto che vuol rimanere sola.

Dalla raccolta "Poesia come un albero" di Margherita Guidacci, Marco ha letto Senso d'ali. Inno all'amore, una posizione molto ottimista che è molto rara in questo caso. L'impressione di Marco è che siamo immersi in un pessimismo cosmico. Invece questa poesia sprigiona ottimismo, abbiamo lasciato il buio, non possiamo più tornare indietro.
Il senso d'ali è l'amore. Siamo per sempre segnati dal cielo. La famiglia di origine è rassicurante, ma sa di chiuso e di stantio, mentre con l'amore c'è un ignoto che ti attende, con le ali spiegate.

 Una poesia tratta dalla raccolta "Bestia di gioia", di Mariangela Gualtieri, letta da Francesca. Intensità delle immagini. Può essere amore può essere tante cose. La finitezza dei corpi scelti per l'incastro dei compagni d'amore è l'esaltazione dell'amore stesso, visto e declamato con grande dolcezza. Occorre tenere presente la fragilità e della cura che un corpo ha, che richiede amore. Tanto più fragili sono i corpi d'amore, tante più cure e attenzioni richiederanno, tanto più preziosi saranno. La fragilità intesa come un dono, più che come un limite.

Amelie Nothomb, Igiene dell'assassino, letto da Luca. Un personaggio, tra l'altro premio nobel per la letteratura, menomato fisicamente che si esprime con arroganza e pedanteria. Si percepisce che nel suo giocare con questa prepotenza c'è una vena di sofferenza e insicurezza. Che l'ha portato a vivere con un simulacro di se stesso attraverso l'uso della scrittura. Un personaggio irritante, forbito, che tratta il suo interlocutore come un gatto tratta un topo.

domenica 15 settembre 2013

Non c'è il limone

Ieri ho partecipato ad un lungo evento, preferisco non entrare nei dettagli, che mi ha messo a dura prova.
Non conoscevo nessuno, nemmeno avevo voglia di conoscere, e sono stato con il bicchiere in mano, tanto per darmi un contegno, in piedi apppoggiato e seminascosto da una colonna, in prossimità di una piscina illuminata, attendendo a lungo l'inizio di una cena. La gente andava e veniva dalle poltrone verso i tavoli degli aperitivi ed antipasti. Ho captato frammenti di conversazione: "Cara sei splendida", "Livorno è ormai al massimo livello di degrado" "Prima ero nel Rotaract, adesso sono nel Rotary" "Ormai nei ristoranti mangi due sciocchezze e spendi 70 euro, e se non ti conoscono ti spennano" "Ora dobbiamo impegnarci a frequentarci di più, cara, avremo sicuramente occasione" "Una cerimonia splendida, ma hai notato che non c'è il limone accanto ai piattini con le ostriche?" .
Invece di dire "sì", la gente diceva "Certo" o "Certamente".
Sono andato via a mezzanotte, nella prima mandata dei commiati politically correct, ma ho fatto una gran violenza a me stesso in questo lungo sabato. Se avessi dovuto ascoltare il mio corpo, sarei dovuto andarmente alle sei del pomeriggio, ma così facendo avrei fatto un torto ad un mio caro amico. Però ho fatto un torto a me stesso.
Pensavo continuamente a Toni Servillo, in "La grande bellezza", che dice:
"La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare."
Io ne ho 52, e ci sto lavorando.

lunedì 9 settembre 2013

Non è facile, ma la direzione dev'essere quella


“Andate fiduciosi nella direzione
                dei vostri sogni, 
                   vivete la vita
che avete sempre immaginato.”

(Henry David Thoreau)

domenica 25 agosto 2013

Ma ti pagano?







E' il 18 agosto e sto faticosamente salendo con la bici verso i 2188 metri del valico del Piccolo San Bernardo. Da un'auto che percorre la direzione opposta alla mia, una donna si sporge dal finestrino, e mi urla: "Ma ti pagano?". La voce è impregnata di sarcasmo, dentro l'auto ci sono altri passeggeri che sghignazzano.
L'auto è già lontana, io continuo per la mia strada. No, cara signora, non mi paga nessuno. Anzi, devo pagare per una settimana di alberghi e cene, possibilmente a buon mercato. Pago per fare fatica, secondo la signora. Tanti anni fa lessi una storiella, questa:
«Un viandante cammina per una strada assolata, finché giunge nei pressi di un cantiere, ove tre scalpellini lavoravano sotto il sole cocente.
Si avvicina al primo di essi e gli chiede: “Cosa stai facendo?”
E quello: “Non lo vedi? Sto sudando!” e il suo sguardo era torvo e il suo volto affaticato. 
Si avvicina al successivo scalpellino, gli rivolge la stessa domanda: “Cosa stai facendo?” 
E quello: “Non lo vedi? Mi sto guadagnando il pane!” e il suo sguardo era spento e il suo volto rassegnato. 
Il viandante prosegue e ripete al terzo scalpellino la domanda: “Cosa stai facendo?” E quello: “Ma come, non lo vedi?” Stiamo costruendo una cattedrale!” e i suoi occhi brillavano di soddisfazione e sul suo volto non vi era traccia di fatica.» 
In una settimana in cui percorro 625 chilometri con dislivello altimetrico complessivo di 11.000 metri, so bene, cara signora, che perdo molti litri di sudore, che mi imbatto in qualche strada molto trafficata, che corro qualche rischio.
Ma anch'io sto costruendo una cattedrale: la mia cattedrale è fatta di cieli limpidi, di monti aguzzi, di ghiacciai a portata di mano, di case tappezzate di fiori sui balconi e tetti in ardesia, di sole e pioggia, di vento, dei sorrisi di molte persone che ho incontrato, del mio respiro, dell'odore della montagna, di un sorso di acqua bevuto direttamente da un ruscello a 1500 metri, di una cioccolata calda dopo una salita(la più buona che abbia mai bevuto), di un tornante con cambio improvviso di panorama, del silenzio di una strada deserta, di un'aquila che si avvita nell'aria, di una lunga discesa e anche delle orecchie che si tappano, della possibilità di pensare e pensare e pensare mentre non devo pensare di muovere le mie gambe, della gioia di un pasto caldo sul far della sera, della morbidezza di un letto, e di molto altro ancora. 
Il sudore e la fatica e i soldi non sono niente, in confronto a questa cattedrale.
Riparlerò nelle prossime settimane di questo viaggio, giorno per giorno. Intanto volevo condividere con voi la mia gioia. 
Di esserci, qui ed ora.

lunedì 15 luglio 2013

La ruota della fortuna


La ruota della fortuna

Mi infilai, con un po' di fastidio per la scomoda posizione a gambe larghe sul bidet e per la frizione che avvertivo, il tampax.
Proprio quella sera dovevano venirmi, accidenti.. influivano negativamente sul mio umore.
Mi soffermai per un attimo con lo sguardo su quell'esile cordicella che usciva da lì: in caso di emergenza mi ci sarei aggrappata, e forse sarei potuta scendere, anche se "ogni abuso sarebbe stato punito"..
Passai al completamento della vestizione, che implica sempre delle scelte e le scelte implicano sempre sofferenza.
Le gonne corte espongono  al desiderio maschile - era ciò che volevo? -, i jeans danno un'aria adolescenziale -e quella sera non era proprio il caso-, un tailleur conferisce un aspetto da tardona.
Terminai infine lo studio anatomico davanti allo specchio, non molto convinta per la scelta della giacca rossa, che sapeva un po' troppo di hostess o di accompagnatrice, ma che si avvitava perfettamente sui miei fianchi; decisi di tenerla, così come la gonna corta.
Ero perplessa, ma molto determinata a uscire.
Tentai di spolverare qualcosa di impalpabile: un sedimento di imbarazzo e paura.
Mi sedetti per un attimo, passai lentamente le mani sui collant, quasi a cercare di volermi bene, e uscii di casa.
Lo specchio dell'ascensore mi confermò un aspetto troppo rigido, dovevo smussare i miei angoli e quelli della mia visione del mondo.
Il garage sotterraneo esaltava il rumore metallico dei miei tacchi e accresceva il mio senso di disagio e solitudine, non c'era anima viva.
Tenevo ben salda la mia borsetta - non avevo che pochi spiccioli e il telefono, ma avevo lo stesso paura-, dopodiché la aprii e tirai fuori le chiavi della macchina.
Prima di partire di nuovo a guardarmi allo specchietto retrovisore: un ritocco ai capelli, nel contempo cercai di riordinare le idee, ma invano.
Agii comunque secondo copione, mi diressi verso il centro, e forse mi stavo allontanando dal mio; tuttavia nei viali, nell'aria rinfrescante della sera - smog compreso - mi stavo rilassando.
Arrivai sotto casa di Elena, stava scendendo. Un delicato profumo si diffuse nella macchina. E la sua voce argentina contribuì ad una mia buona disposizione d’animo.
-Cavolo Barbara, che bella che sei stasera!-
- Maddai ..solo stasera?-
Qualche risatina, qualche smanceria e partimmo.
Le diedi un'occhiata furtiva e sorrisi - me ne sorpresi, ero proprio io che sorridevo dicendo: -Convinta, allora?-
-Certo, e tu?-
...
- Mmm.. sì. E' necessario, e forse sarà anche bello.
"Speriamo" pensai, attraversata da ondate di dubbio.
Ormai da tempo non nutrivo più le speranze di risentire il bello, di provare un'esperienza appagante, emozionante, bella in una parola, appunto.. Sentivo il dolore del distacco, avvertivo il vuoto, la mancanza, sentivo quella sera di un anno fa. Sentivo il prima.
Prima di quel campanello.
 Alla porta c'era un carabiniere.
-La signora Contucci?-
-Sì? Cosa..-
-..Senta, dovrebbe venire con me, è per suo marito..-
-Gli è successo qualcosa?-
A distanza di tempo ripensai a come fosse stata idiota quella domanda: un maresciallo con l'aria imbarazzata, alle nove di sera, a casa mia, si era anche levato il cappello.. certo che gli era successo qualcosa, in particolare gli era mancata l'aria, così come era mancata l'aria alla ruota di un tir, salto di corsia e di lì passava Mauro, fine.
Ma per quanto idiota potesse essere, era la domanda della speranza legata ad un filo, dell'illusione che a me cose del genere non potessero accadere, mai. Mai.
Arrivammo alla villa.
Si sentiva la musica da fuori, c'era gente che fumava e qualche coppia in disparte.
Sorrisi che si sprecavano a destra e sinistra.
Entrammo in un salotto, dove Stefano, il padrone di casa, ci accolse.
- Macchesplendidefanciulle...buonaseeera, venite!-
Mi stava venendo da vomitare, mi sentivo un non-senso vivente, ero fuori luogo.
Mi stupii di come avessi potuto credere che tutto questo fosse per me necessario.
Passai qualche minuto a sgranocchiare noccioline, nel complesso fu il momento più intenso della festa.
Poi trascorsi un po' di tempo a guardare il giardino.
Elena era felicemente abbarbicata con un rappresentante, un venditore fino al midollo, convinto fino in fondo, uno di quelli che raggiungono il budget e che passano la serata a convincerti su qualsiasi cosa.
Invece che di persona, preferii interromperla con il cellulare, non avrei visto fili di saliva, almeno.
- Senti Elena, io andrei, tu te lo trovi un passaggio?
- Ma come, vai già via?-
- Sì, non mi sento tanto.. allora lo trovi?-
- Certo, certo.. buonanotte Barbara.-
Ero fuggita, ma che importa? Avvertii qualcosa di buono, non capitava da un bel pezzo. Non volevo tornare subito a casa. Guardavo di sbieco le luci della città che si allontanavano, mentre a poco a poco la luna piena riempiva e colorava di sogno la mia notte.
Un sogno, quella notte. All'improvviso un rumore, la macchina se ne stava andando per i fatti suoi, attraversai la mezzeria della strada e percorsi con terrore un centinaio di metri contromano.
A fatica la tenni in strada, ce la feci a fermarmi sul ciglio.
Ansimavo con le mani incollate sul volante.
Una ruota bucata, era di nuovo mancata l'aria, ma stavolta il mio di soffio non se ne era andato. Stavo sentendomi in colpa anche per quello, oltre che per aver litigato con lui quel giorno: sopravvivevo, resistevo.
Tirai fuori dal cruscotto il libretto di istruzioni, e andai al capitolo "sostituzione di una ruota".
Uscii, la luna era ancora lì.
Si fermò una macchina.
- Ha bisogno, signora?-
- Direi di.. sì, se mi potesse aiutare, ho una gomma a terra..
Scese un uomo, vestito piuttosto elegante, uno sguardo rassicurante, e anche se le circostanze non erano delle migliori, sentivo di potermi fidare. Anzi, mi sentii addirittura sollevata.
Aveva un gran senso pratico, era gentile, tutto ciò di cui avevo bisogno nel cuore della notte con una ruota da cambiare. Inoltre non credo, visti i suoi sforzi, che ce l'avrei fatta a svitare quei bulloni.
- Lei era alla festa di Stefano, vero? –
-..Sì, ma come.. c'era anche lei?- Altra domanda idiota, pensai, mordicchiandomi il labbro.
- Sì, e come vede l'ho notata, viceversa lei non mi ha visto; quindi ero un soprammobile come tanti..-
Una risata, poi un po' di imbarazzo. Tentai di giustificarmi, ora lo vedevo bene.
- Con tutta quella gente, ci vuole fortuna per notare qualcuno..-
- Che pizza, eh?-
- Scusi?-
- La festa, intendo..-
- Ah, sì.. proprio una pizza!- risposi sollevata. Sorrise, e poi anch'io, aveva un sorriso contagioso.
Intanto stava stringendo l'ultimo bullone, e di lì a poco avrei dovuto stringergli la mano.
Riguardai la luna, era proprio bella: quel tondo mi fece pensare a qualcosa.. percepii una specie di uovo che stavo covando dentro di me, fatto di ricordi, emozioni, dolori, gioie; compresi che quell'uovo avrebbe potuto essere gettato nell'acqua bollente per rafforzarne il guscio e tenermi tutto dentro, compresa la rassicurante immagine che mi stavo costruendo oppure.. oppure ciò che stavo covando potesse distruggerlo, quel guscio, e farne uscire un festoso pulcino, indifeso ma straordinariamente vitale. La luna pareva dirmi qualcosa in proposito.
- Bene, è tutto a posto..-
Un altro pensiero venne a galla: "Non può essere un caso che tu sia qui.."
- Senta.. senti, non potresti accompagnarmi per un pezzo?-
Il suo sorriso si allargò.
Ripartimmo in carovana, ci fermammo ad una piazzola.
-Lasciala tu, Michele, ho voglia di guidare stanotte.-
Direzione mare.
Il mare è vita.

martedì 9 luglio 2013

Relazioni

"Cara Lidia,
stamani ero appena uscito di casa con la macchina, e - come spesso succede - volevo telefonarti.
Le solite operazioni: tiro fuori il telefono di tasca, lo appoggio sul sedile lato passeggero e cerco di posizionare l'auricolare. Ma come sempre, mi occorre rallentare o addirittura fermarmi sul ciglio della strada per dipanare il filo. Se non lo facessi, diventerebbe una matassa inestricabile nel giro di pochi giorni. E' stato in quel momento che ho pensato: anche per le relazioni è così. Ci vuole una frequentazione assidua, forse addirittura giornaliera per far sì che nel giro di breve tempo non si abbia a che fare con un groviglio incomprensibile di roba. Occorre capire, occorre capirsi l'un l'altra, Lidia. Invece ci si abitua a non capire. Un nodino qua, uno là, che vuoi che sia? Ci si abitua ai nodi; si ripassano frettolosamente con le dita, quasi che non ci siano, e ci si abitua, pian piano, ad ignorarli.

Ci si abitua ad un ritratto dell'altro sempre più evanescente e sbiadito, o grossolano,  e non c'è mai tempo per chiarire, per approfondire. Ci si abitua, Lidia, alla mancanza di un quadro dal muro, perfino alla perdita di una persona cara. E' un meccanismo protettivo, dicono, altrimenti sarebbe impossibile sopravvivere, per esempio, alla perdita di un figlio. Ci si abitua, Lidia. Volgendo lo sguardo alla parete si intravede solo la sagoma del quadro; può accadere che per un attimo tornino quei colori vividi, quel campo verde brillante, il contrappunto del giallo dei limoni, un cielo saturo di blu, quasi viola, e si accarezza la possibilità che tutto ritorni, anche tu. Ma è solo un attimo, la parete torna come prima, con quel rettangolo leggermente più chiaro.
Io ho sperato, Lidia. Vedo in te qualcosa di unico, qualcosa che non avevo mai visto prima d'ora. Al punto da essere disposto a mollare tutto per te. Ma dopo un'emozionante incertezza di qualche settimana, mi hai chiarito il tuo punto di vista.
Ineccepibile.

Ma fino ad allora avevo sperato, Lidia. Perché mi piaci. Mi piace il tuo modo di parlare, le tue pause, la tua risata contagiosa, mi piace quando pretendi un abbraccio. Mi piace la tua perenne stanchezza, al limite della malinconia. Il modo in cui descrivi la tua città, mi parli di un libro, un film. Perchè parlo bene con te (a patto di parlare  senza fretta). Perchè mi piaci come donna, e anche per la tua inconsapevole eleganza nei movimenti. Perchè sei eccitante, nuda al chiaro di luna. Perchè tutti questi perchè non li avevo mai visti riuniti in una donna sola.

Perchè ti voglio bene. Perchè sono innamorato di te.   
 
Abbiamo già toccato l'apice della parabola della nostra storia. Siamo volati molto in alto, credo anche tu, io di sicuro, anche perchè non credevo che avresti avuto dubbi su di me, non speravo di interessarti minimamente.
Non mi ritengo "degno di te". E invece per qualche meravigliosa settimana mi hai fatto vivere nella possibilità di costruire un legame forte, a prescindere dal mondo, dalle nostre vite, dalle enormi difficoltà che ci avrebbero atteso. E ti ringrazio per la tua incertezza.
"Se l'amore bussa, apri la porta del tuo cuore. Lascia che si manifesti nella passione di un'amante, nella perfezione del creato, nell'alito divino che eleva verso l'Eccelso." "...anche se le sue strade sono ardue e ripide... e quando vi parla credetegli..." "Non si può toccare l'alba se non si sono percorsi i sentieri della notte..."  Mi cibavo di Gibran nell'attesa, nella possibilità più o meno concreta di dover affrontare epici ostacoli, di dover fare del male a qualcun altro.
Non sapevamo, Lidia, se saremmo potuti andare sempre più in là, ora intuiamo benissimo che stiamo tornando a terra. Probabilmente sarà un atterraggio morbido, borghese, senza spiacevoli conseguenze. Bene così, no? Sto rientrando nei ranghi, Lidia.
Niente più riferimenti al sesso, né telefonate fuori orario. Niente frasi equivoche.
Saremo buoni amici, Lidia. Buoni. La senti l'approssimazione di questo aggettivo? Buoni, alla buona, buonismo, in fondo è buono quel tipo là.
Niente è più perfetto, è solo una fotocopia sbiadita, Lidia.
Saremo buoni amici, e visto ciò che rappresenti per me, questo è già molto, sono grato alla vita di averti incontrato, una specie di dono extra, tipo milionesimo cliente. Ma in queste ore la bellezza di questo dono è offuscata dall'improvvisa e dolorosa consapevolezza di ciò che avresti potuto rappresentare per me.
Buonanotte, amica mia.
Stefano."
 
Rilesse la lettera, l'appoggiò sulla scrivania, la stese sugli angoli e si alzò.
Volse lo sguardo fuori della finestra, stava per albeggiare.
Vide le colline, i limoni, il cielo viola che pareva incendiarsi in un angolo basso. Aprì la finestra, gli parve di sentire un profumo, una fragranza che non riusciva in quel momento a decifrare. Appoggiò i gomiti sul davanzale e chiuse gli occhi. Stette lì per un tempo indefinito, poi tornò dentro.
Prese la lettera, la portò in cucina e la bruciò sul lavello. La parete di colore giallo ocra si ravvivò per un attimo di bagliori rossastri.
Infine andò in camera, entrò nel letto. Strinse le braccia al petto e si addormentò.  

sabato 6 luglio 2013

Rondò

Sulla torre di Babele
regna grande confusione:
la plebaglia canta e balla,
beve vino a profusione,
fallo cerca la farfalla
sulla torre di Babele.

Che fantastica emozione
cavalcare a briglia sciolta
dell'amore la stagione
prima che ci venga tolta!

S'io vivessi un'altra volta
firmerei la petizione
 - spererei venisse accolta
con fantastica ovazione -
per twodotzero versione
della torre di Babele.

domenica 16 giugno 2013

La guarigione

La guarigione

Un fatto straordinario, un evento memorabile.. questo è ciò che mi accingo a raccontarvi.
Niente lasciava presagire che cosa sarebbe successo in quel caldo pomeriggio di giugno, uno di quei pomeriggi in cui non succede mai niente, specialmente in una piccola città di mare, come tante. E neanche loro pretendevano qualcosa di speciale da quel giorno: due amici appoggiati al muretto a guardare la linea dell'orizzonte. Guardavano, ma i loro occhi giravano a vuoto.
Come il tempo in quel momento.
E anche i loro pensieri, in un loop senza fine.
Infine Stefano lacerò il silenzio aggrappandosi ad un'immagine:
- Monica..-
- Eh..-
- Ha un gran bel culo..-
- Lo so.. e allora?-
- No, niente..-
Un gabbiano passò radente al muro ed emise il suo verso di dolore. Sempre con quella specie di sorriso sul becco. Un sordo brontolio all'orizzonte - forse quelle nubi lontane - ruppe per un istante la monotonia, poi più niente.
- Ti piace, eh?-
- Chi, Monica? Eh beh.. oltretutto non è nemmeno una gallina..-
- Perché dovrebbe esserlo?-
- No, pensavo a..i soliti discorsi sul fatto che una bella fica non ha cervello, e invece..-
- Ah..-
- Invece lei è anche in gamba, accidenti..-
Si schiarì la voce per un attimo e poi continuò solenne:
- Insomma, mi piace, sì...-
Gli arrivò uno scappellotto da dietro le spalle:
- Cosa ti piace? Eh?-
Un sorriso a trentadue denti attendeva Stefano al varco. E intorno al sorriso, altrettanto luminosa, vide Monica.
- Che hai da guardare? Ti ho fatto male?-
-..No.. Ma.. quando sei arrivata?-
- Ora.. ma che ti è preso? Una commozione cerebrale? Toc-toc.. C'è nessuno in casa?-
Intervenne provvidenzialmente Simone: - No, sai.. sembrava un teletrasporto: stavamo parlando di te, ed eccoti qua..-
- Ah, parlavate male di me?-
- Certo! - Risposero in coro.
- Begli amici! Come va? Allora, lo date l'esame a fine mese?-
- Boh! Il gran caldo non aiuta, ma ci stiamo provando..-
-..Qui sul muretto..-
- Che fai la predica anche tu? No, eh..-
- Va beh.. come non detto. Comunque anch'io sto impazzendo con storia medievale.. ma oggi basta; è sabato, no?-
Si appoggiò anche lei al muretto con lo sguardo rivolto al porticciolo.
Ma che si fa qui? Si va al mare? Io il costume l'ho messo..-
- Sì.. ora si va.. ma non c'è niente di meglio da fare, no eh?- rispose Simone.
- Cosa vuoi che ci sia... Toh, c'è Andrea con la barca..-
Un piccolo e variopinto peschereccio stava entrando nel porticciolo. Accanto ad Andrea una ragazza con lunghi capelli neri al vento, una specie di bandiera dei pirati.
Stefano corrucciò lo sguardo, stava inseguendo un'idea:
- Di meglio ci sarebbe.. al mare sì, ma.. chissà se si convince..-
Un'ora più tardi erano in mezzo al canale di Piombino che ridevano come matti. Mare intorno a loro, e vento, un vento fresco di maestrale.
- Certo che sei un laido, Andrea.. venti euro per il gasolio..-
- Capirai, cinque euro a testa.. non vi lamentate troppo, eh.. sono uscito di nuovo in mare solo per voi, dovevo rientrare a studiare oggi pomeriggio.. o che volete, poi?-
Simone:- Da bere, magari..-
Monica:- E i salatini?-
- Fatela finita.. e, Ilaria, attenta a non inciampare sulle reti sennò il mi' babbo m'ammazza!-
- Tranquillo capitano, tranquillo, guida vai che sei bravo..-
Gli schizzi della prua erano un piacere, e poi i gabbiani al seguito e poi quel senso di libertà che solo il mare aperto può regalare. Stefano era raggiante. E anche gli altri, compreso Andrea che faceva il prezioso.
- Senti, ferma questa bagnarola e facciamo un bagno, dai..-
A motore spento stettero tutti e cinque in silenzio - come quando si entra in un luogo sacro - intervallato solo dal risciacquio delle onde e dal respiro del vento.
Calarono l'ancora e si misero a guardare il blu del mare che si confondeva con il blu del cielo, una specie di vertigine amplificata dal silenzio irreale; si erano fermati a ridosso di un'isoletta di scoglio di nome Cerboli. Un fazzoletto di pietra disabitato, nella parte alta dell'isola c'era una cava di pietra abbandonata, pareva che un gigante fosse passato di lì ad assaggiarne un po' con un enorme cucchiaio.
Fecero una serie di tuffi dalla barca, avvitandosi in quelle acque profonde, riemergendo rumorosamente, con schizzi e respiri ansimanti. Dopo un po' fecero una pausa, piacevolmente stanchi. 
- Si va sull'isola?- fece Monica. Si guardarono, incrociarono gli sguardi, ed arrivarono dei cenni di assenso. Erano lì a due passi, perché no?
Accostarono con la barca ad un approdo dove c'erano ancora una serie di anelli fermati su una piattaforma di cemento.
Tirarono giù i bordi di gomma, legarono le cime agli anelli e scesero. Camminarono per un po', si avvicinarono ad una specie di canale di pietra - sembrava un imbuto - che collegava la spiaggia alla vecchia cava.
Stefano guardava Monica a più riprese. Camminavano contenti tutti e cinque.
Si arrampicarono verso la cava. Cinque minuti di cammino e l'aria diventò improvvisamente scura.
- Gente, si torna via, si sta annuvolando..- fece Andrea.
Invertirono la direzione, passarono altri due minuti e scesero le prime gocce, e di lì a poco un temporale estivo si rovesciò sull’isola. Violento e stridente con il loro umore.
Affrettarono il passo per raggiungere la barca.
Poi un fulmine si abbatté su di loro. Colpì in pieno Monica. Stramazzò al suolo, esanime. E gli altri, increduli e impauriti si precipitarono verso di lei urlando.
Si piegarono su di lei Stefano e Andrea, gli altri due piangevano disperati.
- Senti il polso, Andrea! –
Stefano le aprì la bocca, le tirò fuori la lingua che era caduta indietro, poi appoggiò l'orecchio sul torace. La fibbia  metallica tra le due coppe del reggiseno, mezza bruciacchiata, gli scottava sull'orecchio.
Si sentì morire. Poi disse:
-Non batte il cuore, non respira, forza! Io faccio il massaggio cardiaco, tu butti l'aria in bocca! Daiii, cazzo! Cinque massaggi, un respiro, forza, forza!-
Per un po' continuarono, invano. La pioggia su di loro infuriava, come loro.
Ad un certo punto si fermarono. Si fermarono. Stefano si coprì il viso con le mani, Andrea si mise a piangere.
Stefano vide Monica, lì, i lineamenti del viso distesi, pensò a come era bella, ma non le era servita a niente: insultata dal fulmine, ora dalla pioggia, nessun rispetto o precedenza per la bellezza.
Poi si gettò su di lei, urlando:
- Non mi servi a niente così, non mi servi a niente, a niente..-
Cominciò a tempestarla di pugni, gli altri non reagivano, piangevano e basta.
Dopo un pugno caduto a metà torace, Monica ebbe un sussulto.
Simone urlò: - Si è mossa!-
Andrea: - Guardate, si muove il torace!-
Stefano le prese il polso, era flebile, ma il battito era ricominciato.
- Forza! Non possiamo stare qui, prendiamola di peso, andiamo, dai!-
La presero con delicatezza, una specie di bella addormentata, la portarono alla barca, la adagiarono sulle reti. Continuava a respirare. E loro speravano. Speravano e basta.
Tornarono a Piombino, intanto il temporale se ne era andato, pareva non fosse mai venuto.
La mattina dopo, in ospedale, erano lì tutti e quattro - nessuno era andato a dormire - insieme ai parenti di Monica, amici, conoscenti, un paio di giornalisti della cronaca locale. Speravano, speravano e basta.
Un'infermiera entrò in sala visite, fece un cenno a Stefano, lo fece entrare in reparto.
Entrò in quella stanzetta, la mamma di Monica gli sorrise, lo abbracciò, e si allontanò dalla stanza. Lei aveva una flebo attaccata al braccio, poi aveva un televisore davanti a lei con delle righe verdi su fondo nero che saltellavano allegramente.
- A quanto pare, se sono qui a vedere questo programma palloso, è merito tuo..-
- Come stai?-
- Bene, magari ho perso qualche neurone qua e là, ma i più antipatici. Ho ripassato mentalmente storia medievale, la so ancora, e poi mi ricordo di quando ero bambina, e mi ricordo di ieri pomeriggio quando ti ho tirato uno scappellotto in testa. Ma non c'era mica bisogno di rendermi la botta con gli interessi. E poi, sai, ieri pomeriggio ero lì da un po', dietro di voi, e mi ricordo anche di questo..-
Stefano era già commosso e arrossì, per giunta.
- Grazie, Stefano..-
In quella piccola città, sapete, non c'era un cazzo da fare, e la gente parlava, e parlò molto di  questa storia: del peschereccio, del fatto se Andrea avesse o meno la patente nautica - cazzo c'entra, poi? - di quel temporale, di Cerboli e via dicendo.
E in molti a pensare come avesse fatto Monica a non riportare esiti permanenti, se fosse stato vero quello che gli altri hanno riportato, cosa avessero potuto nascondere...la gente è così, a volte parla semplicemene perché ha la bocca.
E poi: cosa avesse potuto salvare Monica, se il caso o l'effetto piezoelettrico del colpo dato in pieno petto. Boh. Qualcuno dice che sia stato il grande amore di Stefano. Ecco, gente, a me piace pensarla così. Che il suo amore abbia guarito Monica dalla morte, almeno per un po' di anni, intendo.
Sissignore, la penso proprio così.
E un'altra cosa.
Ogni tanto vedo Stefano in giro, ripenso a quella storia di qualche anno fa, e mi viene in mente quel versetto del Talmud che fa: "Chi salva una vita, salva il mondo intero".