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venerdì 27 febbraio 2009

Il mio cammino di Santiago - 7



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Astorga, sette giugno, le sei del mattino.
Siamo già tutti e quattro in piedi a sistemare i bagagli, ci aspetta una giornata molto impegnativa.
Per fortuna è stata una notte riposante. Ieri sera mi ero addormentato di schianto, dopo una passeggiata coadiuvante la digestione di varie specialità di pesce, durante la quale Paolo ci ha raccontato dei suoi problemi di salute. Una decina di anni fa è stato operato alla testa per problemi di circolazione del sangue, nonostante l'intervento fosse denso di rischi. Ma non aveva altra scelta: prima dell'intervento aveva continui attacchi epilettici, svenimenti, parestesie che non gli consentivano più una qualità di vita accettabile. Dopo l'operazione, al suo risveglio, non muoveva più le gambe. Per un anno è rimasto in carrozzella, poi un lento ritorno alla normalità, con l'aiuto della provvidenza da una parte, e della sua forza d'animo dall'altra. Fino a tornare a camminare, fino alla ripresa della sua attività lavorativa.
"...ma si ricordi che la sua sensibilità alla gamba e al piede destro è molto ridotta. In modo irreversibile. Il suo quadro neurologico dovrà essere attentamente monitorato nel corso del tempo. Niente più sport, niente sforzi estremi, mi raccomando. Dovrà condurre una vita tranquilla, in sostanza..." gli disse un neurologo di chiara fama.
Dopo quelle raccomandazioni, nel corso degli otto anni successivi, Paolo ha praticato la bicicletta, ha corso a piedi alcune maratone, volato in deltaplano, parapendio, è stato sull'Everest fino ai seimila metri. Il riposo può attendere. E stamani è qui con noi, in cammino.
Oggi dovremo valicare la cima più alta di tutto il viaggio, la Cruz de Hierro (croce di ferro) a 1505 metri, e dopo una lunga discesa, raggiungere O' Cebreiro a 1300 metri, meta di oggi.
Con la consapevolezza di affrontare la giornata più dura - fisicamente, intendo - del Camino, abbandoniamo alle sette e un quarto il borgo di Astorga e ci disponiamo in fila indiana lungo uno stretto sentiero che per molti chilometri è costellato quasi unicamente da un arbusto zeppo, carico, saturo - non saprei che altro dire per trasferire il senso di pienezza dell'immagine - di piccoli fiori gialli (no, non è la ginestra), dal profumo fragrante (quasi la scorza del limone, ma meno pungente, un odore che si sente spesso in erboristeria), l'effetto ottico è straordinario. La foto del post ritrae l'arbusto, qualcuno mi sa dire che pianta potrebbe essere?
Si sale in modo costante, senza strappi, fino a Rabanal del Camino, sempre circondati da macchia e piante basse. E qui, a 1100 metri tornano i boschi che non vedevamo da alcuni giorni. Castagni, abeti, larici. La strada si impenna, è un brulichio di tornanti, e la fatica e il caldo, invisibili ma fedeli compagni, ci affiancano e non ci molleranno per l'intero giorno. A qualche tornante dalla vetta, la strada raggiunge la pendenza del 15% - per fortuna per un breve tratto - e improvvisamente si passa dall'asfalto al terreno sconnesso, scendo e spingo la bici per un centinaio di metri, poi risalgo, giusto in tempo per ammirare seduto in sella il bosco che si apre, lasciando posto al pascolo e ad un orizzonte in cui si alternano sierre e mesetas; l'occhio indugia sul bordo - lontanissimo - e cerca di indovinare cosa ci sia "al di là".
Finalmente in cima.
Un robusto palo di legno alto una quindicina di metri sormontato da una sobria croce di ferro, è tutto, la cruz de hierro non è altro che questo, un carico di simboli e di speranze. Da circa novecento anni i pellegrini che passano di qui lasciano una pietra alla sua base - ne risulta un enorme mucchio di pietre, alto almeno una decina di metri - alleggerendosi di qualche peccato. Il palo di legno è zeppo di preghiere, quadretti incorniciati, foto di propri cari, croci, conchiglie - conchas - del Camino.
Mi soffermo sulle foto, su alcune di quelle foto.
Un'umanità intera, archetipica, antica come il mondo.
Persone ammalate, i propri cari affidano la loro immagine qui, dove il cielo è più vicino - una posizione privilegiata - e sperano.
Persone già morte, i pellegrini pregano per la loro anima, oppure pregano per non dimenticarle.
E ancora: compagni/e, fidanzati/e, persone con cui un/una lui/lei spera di condividere una vita intera, si rivolge al cielo - sì, qui è davvero vicino - e ci si affida.
In pegno lasciano un'effigie, una preghiera, e l'"im-pegno" di portare a termine il Camino con le proprie gambe.
Deposito il mio sasso. Ci fermiamo a bere e parlare quanto basta, poi ripartiamo, la giornata è ancora lunga.
Una discesa lunga più di venti chilometri - punte del 26%(!) di pendenza - ti fa venire i dolori alle mani per la lunga frenata e in meno di un'ora perdiamo mille metri di altitudine arrivando a Ponferrada, dove ci fermiamo per mangiare. Abbiamo percorso cinquantacinque chilometri, ce ne "rimangono" cinquantasei. Complice la stanchezza, ed un sole che giustifica una sorta di coprifuoco della popolazione locale, la pausa nel centro di Ponferrada si protrae per quasi due ore. Un'occhiata all'esterno del castello templare, una visita alla basilica di stampo barocco, una sosta per mangiare, quasi ci addormentiamo sui tavolini. Una chiacchierata con quattro olandesi (due di loro viaggiano con un pittoresco e leggero - tutto in alluminio - tandem, che però li costringe ad evitare gli sterrati), che hanno già percorso duemila chilometri, ne faranno altrettanti per tornare a casa. Non hanno fretta, sono in pensione ed è solo la strada che suggerisce loro dove fermarsi.
Si riparte, sono le tre. Si viaggia per altri venti chilometri in piano, poi si ricomincia a salire, ma senza strappi. Sono le sei passate, ci domandiamo se potremo arrivare lassù, a O Cebreiro, oppure fermarci prima. Intanto si continua a pedalare, e si parla, la dolce salita ce lo consente. Si pedala e si parla, e si mangia, e si dorme. Qui è normale, in Italia non ce lo sogneremmo nemmeno per un istante di condurre una vita del genere, percorrendo lo stivale - tanto per fare un esempio - dall'alta Toscana fino a Reggio Calabria. La fatica leviga, smussa le asperità; mi sento come un ciottolo di fiume.
Sono le sette e mezzo, mancano dodici chilometri, il muro di salita è davanti a noi.
Decidiamo di proseguire.
Paolo si sente molto stanco, Michele non lo molla un attimo, lo incoraggia con dei "Vai Paolinooo...", ogni tanto cantano a squarciagola delle canzoni in un mix di dialetti lombardo-veneti, e via grandi risate. Mathias va un po' avanti e indietro.
Quando ci troviamo al primo muro, provo una grande difficoltà con i miei rapporti duri di bici da corsa. Per far meno fatica, sono costretto a far girare i pedali ad una velocità sufficiente, altrimenti mi pianto. Lo dico agli altri, provo ad andare su un po' più veloce, teniamo i telefoni accesi, appena - e se ce la faccio - arrivo su, cerco quattro posti per dormire, che sia albergo o ostello o rifugio - nelle guide c'è scritto che O Cebreiro è molto frequentato - insomma io vado.
Mi defilo pian piano dai tre amici, e inizio a danzare all'ombra dei castagni. Mi alzo sui pedali per lunghi tratti, faccio un po' più fatica alle braccia ed alle spalle, ma un po' meno alle gambe. E quando ti alzi sui pedali per lunghi tratti, spostando il corpo alternativamente a destra e sinistra, è come se danzassi.
Ballo, anche se non so ballare.
Di tanto in tanto si dirada il bosco, si fanno largo pascoli del tipo "mucca felice", qualche vecchia casa, il vento, la nuova strada a quattro corsie che sormonta la vecchia, quella dove siamo, fortunatamente deserta. Oltre alla pendenza, psicologicamente la fatica è accentuata dalla assenza di tornanti: la strada è un piano inclinato che va su ad libitum senza il minimo cambiamento, che taglia il monte in due parti come un coltello in un panetto di burro. New entry: nugoli di mosche che non si preoccupano del fatto che io sia in movimento. Mi ci vorrebbe una coda per poterle scacciare.
La fatica è tanta, col senno di poi penso che due montagne in un sol giorno siano un'esagerazione, che avremmo potuto...che sarebbe stato meglio se...ma, del resto, per fare il Camino in dieci giorni - domenica mattina ho l'aereo, lunedì mi aspettano pazienti a bocca aperta - non ci sono grandi alternative, solo piccole variazioni. La fatica è quella. Ma poi ogni tanto mi rilasso e guardo, salendo, sempre maggiori porzioni di orizzonti e panorami. Se anche la mente potesse fare altrettanto. Il vento, un vento fresco che sa di Oceano - dopo O Cebreiro non ci sono più alte montagne, c'è la Galizia con Santiago e Finisterre - ti annuncia un cambiamento netto: di clima, di gente, di lingua(un dialetto di matrice gaelica).
Un hotel, alcune case racchiuse in un borgo che va sotto il nome di Piedrafita, un bivio. Verso sinistra l'indicazione con la conchiglia del Camino di Santiago e la meta del giorno: O Cebreiro km 4. Pensi che sia fatta, invece non sei ancora arrivato. Quattro chilometri di forte pendenza, il vento più sostenuto, il sole che va giù dietro il crinale del monte, la temperatura che si abbassa rapidamente.
Non c'è anima viva in giro, finalmente si intravede il paese, un bel borgo con tetti in ardesia, riesco a scorgere il tetto ad angolo acutissimo e il campanile di una bella chiesa romanica, sovradimensionata, direi, rispetto al numero di case.
Le ultime curve, arrivo.
Mi fermo a centoundici chilometri.
Sono le nove e un quarto.
Mi fiondo dentro una locanda. Non hanno posto per dormire, il mio scoramento si legge sul viso. La tipa me lo legge, tira su il telefono, parla in un modo per me incomprensibile e poi mi sorride. Mi indica cento metri più su un piccolo albergo, non capisco la strada - peraltro molto semplice, O Cebreiro è un buco - ma per fortuna scende il proprietario dell'albergo che mi precede. Spingere a piedi la bici carica di bagagli sull'acciottolato del vicolo in salita è l'ultima fatica del giorno. Ci sono le ultime due camere doppie libere (più tardi scopriremo che l'albergo del pellegrino è al completo). Telefono a Michele per indicargli la pensione, stanno arrivando.
Ci aspettano due camere accoglienti, una doccia, un pasto abbondante, quattro chiacchiere. E' tutto così semplice, quasi ingenuo, tuttavia ne sono felice.
Non è solo la fatica, è anche il Camino, e la strada, e i suoi immensi cieli, i cieli di Spagna, nelle più variopinte tonalità - dal rosso tramonto all'indaco al blu notte, alla stessa notte co-stellata di virgole luminose - che ti levigano, ti semplificano.
Un processo che regala brandelli di felicità, non esente da sofferenze.
A domani

lunedì 23 febbraio 2009

Chi è il vero narratore?(da un corso di Giulio Mozzi)

Il 12 e 13 novembre 2005 partecipai ad un corso di narrazione di Giulio Mozzi. Nel corso di questi tre anni e mezzo a venire ho più volte riletto gli appunti che presi; sono stati per me utili sia come lettore che come aspirante scrittore. Sperando di farvi cosa gradita, ve li passo.
Buona lettura

In questi due giorni parleremo di scatole cinesi e cercheremo di capire, quando leggiamo un libro, chi sia il vero narratore di quel libro. Leggeremo e discuteremo dei brani di alcuni libri, tra cui: "Jacques il fatalista e il suo padrone" di Diderot, "La vita e le opere di Tristam Shandy" di Sterne delle Einaudi, "Trilogia di New York" di Paul Auster, poi "Don Chisciotte" di Cervantes; sono libri che ci aiutano a capire le forme narrative che si stanno usando oggi. Questi sono i principali, ma prenderemo in esame anche altri libri.
Il narratore è un oggetto abbastanza fantasmatico, ma una volta individuato non si scorda più.
Per quanto riguarda "Trilogia di New York" Paul Auster è l'autore, un signore ben riconoscibile, senza dubbio. Paul Auster è il responsabile di quel libro, tuttavia quando leggiamo materialmente questo testo, ciascuno dei tre racconti di questo libro presuppongono un narratore che sta a cavallo tra una proiezione dell'autore e una del testo. Auster non è stato un uomo sempre identico nel corso della sua vita, come tutti, del resto. Noi stessi possiamo aver avuto l'esperienza tipo: "Oddio, ma chi ha scritto questarobaqua, ero io, ma adesso sono un altro." C'è uno stato di volta in volta diverso dell'autore; in quel momento quella proiezione di sè è il narratore di quel testo, come una delle tante possibilità di incarnazione del narratore nel corso della vita di quell'autore. Ciascun testo implica un narratore suo proprio. Non si deve commettere l'errore di attribuire le parole della trilogia ad Auster, bensì al narratore che è un oggetto separato da lui. In un testo fatto da noi stessi è più difficile pensare che quel testo sia scritto da un narratore che noi non conosciamo, un narratore desunto solo dalle informazioni contenute del testo, distinto da noi. Ma perfino quando descriviamo la nostra giornata - un testo ascrivibile al genere "confessione" - anche in quel caso, via via che lo leggiamo possiamo andare a caccia di un narratore che non siamo noi stessi.
Una qualità di un testo - si dice, e giustamente - è la sua coerenza, ma più importante ancora è che un testo abbia un suo narratore: la creazione di un narratore è la cosa più importante. Per quanto l'esistenza di un narratore sia consapevole, comunque la creazione di questo narratore non è intenzionale. E' un soggetto che si infila tra l'autore e il testo. L'invenzione del narratore è qualcosa di più sintetico, rispetto all'operazione analitica di cercare una coerenza del testo nei vari pezzi. E' possibile avere coscienza del narratore? Sì, ma solo dopo aver finito il testo. Quando opero una revisione logico razionale del testo posso lavorare sulla coerenza, e altro ancora, ma non posso lavorare sul narratore.
Ma diamo un'occhiata al testo di Auster, partendo dall'inizio di "Città di vetro", il primo racconto di "Trilogia di New York".
Prime parole: "Cominciò con un numero sbagliato...", è impersonale, non si dice cosa comincia, è una fase da genesi, "in principio era...", si assiste ad una creazione. Più giù si legge "...la voce di qualcuno che non era lui" e questo inserisce nel racconto una nota molto inquietante.
"...molto tempo dopo si sarebbe accorto che nulla era reale tranne il caso": Auster ci dice che la nostra vita è casuale, non è un romanzo dove tutto tiene. Tutto ciò che è casuale è reale.
In questo testo si troverà cose molto casuali, e proprio per questo reali: "All'inizio non c'erano che il fatto e le sue conseguenze." "...che abbia significato o meno non spetta alla storia deciderlo" "in quanto a Quinn non serve dilungarsi su di lui" "sappiamo per esempio che...scriveva romanzi gialli sotto il nome di Wilson". Auster ha scritto un libro, e fin qui ci siamo. Il libro parla di uno scrittore, Quinn, che scrive romanzi gialli in anonimato, mantenendo lo pseudonimo di William Wilson(che in italiano potrebbe stare per "Guglielmo figlio di Guglielmo, cioè figlio di sè stesso, una specie di parto divino). Wilson, dunque, è il nome del narratore generato da Quinn. Spesso Quinn va a spasso senza una meta compiendo un'azione reale: rispetto alla sua storia pregressa(sappiamo che sua moglie e suo figlio sono morti), il fatto che cammini è casuale; "...era questo che chiedeva alle cose: di non trovarsi in nessun luogo..." questa storia, in altre parole, non sta cercando di dotarsi di un senso. Non vuole essere sottoposta ad alcuna logica narrativa, nessuna proiezione futura di sè(tipo: voglio fare questo e quest'altro). "...aveva continuato a scrivere perché sentiva che non avrebbe potuto fare altro..." "...sembrava non costargli alcuno sforzo" "non gettò mai la maschera dello pseudonimo" "non arrivò mai a credere che lui e William Wilson erano lo stesso uomo". "...sembrava che per lui in buona parte le cose avessero cominciato a cambiare. Era vivo e la caparbietà di questo dato era per lui stupefacente". Pare che questo personaggio viva in un puro presente, il passato c'è ancora ma come una semplice impronta.
Ad un certo punto del racconto c'è uno spazio, poi riprende così: "Era notte...il narratore, il poliziotto privato Max Work...aveva preso lentamente vita"..."Wilson giustificava l'esistenza degli altri due".
Più avanti si legge: "Squillò il telefono" "una voce meccanica e colma di emozione", la voce chiede di Paul Auster e Quinn nega decisamente la conoscenza o la presenza di Paul Auster. Perfino Paul Auster entra nella storia. C'è una sovrapposizione di personaggi sui vari piani della storia.
"...il centro è dovunque e non si può tracciare una circonferenza finchè la lettura non è terminata".
Tra tutti i tre soggetti si instaurano delle relazioni mobili, come se avessimo dentro un liquido piuttosto denso degli oggetti di configurazione sempre diversa. "Era un po' più tardi della notte precedente". Si ripete a più riprese l'irruzione di qualcosa nella storia, un qualcosa di dispotico come un telefono che suona a qualsiasi ora, e suona in un modo sempre uguale, indipendentemente dalle circostanze.
In certi momenti questo telefono si attende: "...La notte seguente era pronto..."
Leggendo di Max Work si vede ciò che Quinn non è, dai contorni di Work si percepisce la figura di Quinn.
Nelle pagine iniziali si instaura un patto con il lettore, accettiamo Quinn come narratore.
Wilson è il garante di tutto questo, Wilson non fa assolutamente niente , non agirà mai in quanto Wilson ma agirà come work.
Chi è "il nostro Wilson"? E' colui che ci permette di costruire una narrazione.
La creazione del mondo è la condizione che rende possibile il mondo, la separazione delle cose lucebuio ecc.
Se Quinn non avesse pensato di agire nel mondo attraverso l'esperienza di Work non ci sarebbe stata storia.
Dio crea una separazione. La violazione del rispetto di questa separazione(Eva che mangia la mela da un albero ben preciso, fino a quel momento separato dal resto del giardino) genera una storia.
Chiedetevi come si sarebbe potuta creare quella storia lì senza l'esplicitazione dei ruoli di questa trinità(Quinn-Wilson-Work).
La letteratura non è possibile senza un pensiero cosmologico, è altrimenti difficile che la nostra scrittura risulti molto forte.
Questo narratore nascosto talvolta consente(in modo inconsapevole) allo scrittore una separazione dalla sua vera persona(vera per come appare al mondo, forse potrebbe essere più vero - paradossalmente - il narratore).
Nei promessi sposi, per esempio, il Manzoni appare mite e conciliante(mentre in realtà è burbero e nevrotico) attraverso l'espediente del manoscritto ritrovato. Chiedetevi sempre - e questo in genere lo si può capire dalle prime pagine, quando si stipula il contratto tra narratore e lettore - chi sia il vero narratore della storia che state leggendo(e non confondetelo con la voce narrante, né con l'autore).
In "Le avventure di Augie March" di Saul Bellow ci sono delle frasi all'inizio del testo che mi devono insospettire:
"faccio in base a ciò che ho imparato"; quest'affermazione pare che stia a significare che il protagonista è frutto della sua esperienza". Successivamente si scrive:"il carattere dell'uomo è il suo destino", che, abbandonando l'uomo ad una sorta di deriva, pare contraddire quanto scritto prima.
Questi romanzi letti finora fanno solenni dichiarazioni circa la verità del testo stesso, e proprio questo ci deve insospettire. In realtà interessa ciò che viene omesso, il narratore di Saul Bellow viene a galla cercando i fatti non narrati.
In "La versione di Barney " l'autore Mordecai Richler ha scelto di dichiarare una versione di parte, la versione di Barney, giustappunto. Lo fa essere fazioso il più possibile. Il lavoro del buon narratore è quello di tenere per il protagonista e cospargere la storia di menzogne credibili. Comunque andare a caccia in un testo del vero narratore è molto difficile. Si può anche provare sui propri stessi testi.

Una storia può essere rappresentata da un autore esterno che conosce, oppure non conosce le intenzioni dei personaggi.
Ci si può posizionare nei vari angoli della storia, si può esporre più punti di vista, ritrovare dei documenti(giornali, libri, lettere, registrazioni) che parlano di tutto questo.
In "Jacques il fatalista e il suo padrone" di Diderot ci sono meccanismi di questo tipo, e tanto altro ancora.
La storia degli amori di Jacques di Diderot è stata poi copiata da Laurence Sterne.
Altro libro del genere è "Tom Jones" di Henry Fielding, divertentissimo, ed è anche un un bel libro. Al suo interno c'è una gag di ben 150 pagine e c'è una prostituta che tenta di farsi il bel Tom Jones. Lei mangia un pollo e cerca di sedurre Tom Jones. E si aprono storie su storie.
Altro libro: "Le avventure di Arthur Gordon Pym" di Edgar Allan Poe.
La cosa sarebbe stata pubblicata come un romanzo, ma vedendo che la cosa risultava veritiera ai lettori, decise di continuare a scrivere "il signor Gordon Pym" in persona.
Il lettore, all'interno di questi meccanismi complicati, non può sapere se prendere per vera o meno l'intera faccenda; il narratore si limita ad agire attraverso il contorno dell'opera, ma il meccanismo funziona benissimo. Si creano dei problemi sullo statuto del testo attraverso dei segnali contraddittori.
Altro esempio di scatole cinesi più complesso: "La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo" di Laurence Sterne. A pagina 179, nel bel mezzo di di un libro(l'opera è suddivisa in libri, intese come parti di un libro) c'è la prefazione. Alla fine della prefazione si continua con il capitolo XXI. Nell'ultimo libro ci sono i capitoli XVIII e XIX dove non c'è scritto nulla. Poi nel capitolo XXV si scrive a proposito di quei due capitoli:"bisogna lasciare che la gente scriva le proprie storie alla propria maniera". Stern non ci offre il libro come prodotto finito, ma nell'ordine in cui gli è venuto in mente di scriverlo. E' come se il regista di un film decidesse di lasciare l'ordine delle scene per come il film è stato girato in senso cronologico e non rispettando la storia di quel film.
Poi ci sono gli scarabocchi + celebri della storia della letteratura nel capitolo XL. Le quattro linee che descrivono come l'autore si sia mosso nei suoi quattro libri. Le onde che vanno diversamente dalla linea retta sono le varie digressioni di tutta la storia. Se togliamo le digressioni togliamo l'80% del testo.
In "Jacques il fatalista" il racconto è continuamente interrotto da altre storie e la storia principale non termina nemmeno. Il tempo della storia è il tempo di viaggio. Gli amori di Jacques vengono continuamente inseriti nella storia principale. La storia della contessa e del conte che si giurano eterno amore è inserita in due spezzoni posti in due punti diversi del racconto. Un'altra storia, raccontata in almeno 4 pezzi, si svolge nel corso viaggio del capitano. Altra storia raccontata in un unico blocco dei pochi amori del padrone di jacques. Poi ci sono le storie secondarie; oltretutto ci sono storie che paiono balenare e sparire. In un testo come questo è molto difficile individuare una figura unica di narratore.
Tornando al Tristram Shandy, ad un certo punto si sta per raccontare qualcosa di scabroso e così nel testo si legge:
------------ chiudete la porta --------------
Sempre nel Tristram Shandy c'è un parroco che rifà una vera predica e non c'entra nulla.
Ad un certo punto si legge "Mi dispiace di non aver inserito il capitolo sui baffi e gli ombrelli" e dopo alcuni capitoli l'autore inserisce quattro pagine sui baffi.
Questo libro si racconta esclusivamente attraverso la voce del narratore.
Circa nel 1620 fu pubblicato "Histoire comique de Francion".
Questo libro finiva con la promessa di un secondo libro(non c'è alcuna edizione italiana). E' un tipo a cui capitano diverse avventure, con relative oscenità. Vengono pubblicati sei libri senza indicazione d'autore per ragioni prudenziali.
4 anni dopo ne esce una nuova edizione con modifiche, nuovi libri e dentro al testo vengono inserite prefazioni, e si scrive che tale Francion è l'autore di questo testo.
Nel 1632 esce l'edizione di un autore, un tipo morto da due anni, e c'è anche la sua prefazione, che dice di aver raccolto queste vicende dalla bocca stessa di Francion. Poi, però, l'editore scrive : nella prima edizione l'editore Dalage ha inserito oscenità, che toglie in questa edizione, in cui si aggiunge dell'altro. La seconda edizione è stata pubblicata in modo abusivo da "Francion"; mentre in questa edizione si inserisce il vero autore, Charles Sorel. Tutto questo confonde il lettore, i ruoli sono variabili, il vero e l'immaginario sono difficilmente separabili.
Il "Don Chisciotte" è scritto da Cervantes mentre sta in galera. Lo pubblica nell'anno 1604 con il titolo "Il fantasioso strambo e bizzarro Don Chisciotte de la Mancia" che sarebbe il primo libro.
Dentro questo libro Cervantes dichiara di essere l'adattatore in lingua spagnola del libro di un arabo, un certo Cide Hamete Benengeli. Un paio di amici di Don Chisciotte prelevano dalla sua biblioteca il libro e lo buttano, e Cervantes riesce a salvare questo libro.
Dieci anni dopo esce il secondo volume non scritto da Cervantes ma da Alonso Fernandez de Avellaneda. Cervantes allora scrive un suo secondo libro dove si arrabbia con il tipo che aveva scritto il secondo volume.
Ma oggi questo suo secondo libro è illeggibile, non ci sono edizioni in commercio; Cervantes dice che la storia di Avellaneda è falsa, la sua è vera.
Secoli dopo un critico scrive un raccontone per dire come sono andate veramente le cose per Don Chisciotte. Tutto questo per dire che le scatole cinesi non stanno solo dentro un libro ma anche fuori dal libro.
"Il mago di Oz" è il libro con più seguiti al mondo: 99 seguiti scritti dallo stesso autore.
Pinocchio ha avuto più seguiti scritti da altri autori.
Collodi ha aggiunto il lieto fine, per volere dei suoi lettori inferociti. Dopodichè Pinocchio ha avuto 140 seguiti, uno dei quali è scritto da Aleksej Tolstoj, molto bello. Ce n'è per tutti i gusti: "Pinocchio sulla luna", "Pinocchio in automobile", nel 1932 "Pinocchio balilla" che anzichè diventare bambino diventa fascista, e via dicendo. Tutti questi sequel sono tenuti insieme da un burattino, ma ci sono dei pinocchi che mantengono l'universo costruito da Collodi, altri no.

Libri che includono altri libri, libri che si muovono, che mettono in crisi lo statuto del testo, l'idea di libro finito. Ci sono esempi estremi di libri in cui sembra che il narratore sia svanito:"La scomparsa di Patò" di Camilleri è fatto solo di documenti, e una voce che ce li racconti non appare.
"Il suicidio di Angela B." di Umberto Casadei è un romanzo che riproduce un ipotetico faldone relativo al suicidio di una ragazza, Angela B.: articoli dei giornali, testi scritti da amici e compagni di scuola, due blocchi di testo scritti da un compagno di classe, eccetera, un testo di Piergiorgio Ritz, una specie di saggio sull'amore, il testo del soccorritore Mario Trovato, le email di Mario Parecchio e Rinaldo Qualcosa. Il tutto incastrato dentro con due sbocchi, scritti dall'"artefice" che sono fuori del libro.
L'autore dov'è? Sembrano articoli autentici.
Questo libro nasce in modo curioso. Un paio di anni prima di quel libro Giulio scrisse dei racconti, fra cui una lettera relativa al suicidio di Angela B. che inviò ad alcuni amici ed un anno dopo Casadei arrivò da Giulio con 80 pagine e disse: "Ecco qua". E da qui nacque l'idea vera e propria del libro.
Altro esempio è un romanzo di Mario Pomilio, ingiustamente dimenticato "Il quinto evangelio". Un ufficiale americano si trova in una canonica per qualche mese. Guarda i libri che si trovano in quella canonica. Poi c'è una serie di quaderni in cui ci sono appunti sul tema del quinto evengelio, che sarebbe misterioso e nascosto, esoterico. Non si capisce se quando parlano del quinto evangelio sia un libro vero o una metafora. Dopo la guerra raccoglie, in qualità di professore, testimonianze sul quinto evangelio. Chiede un'opinione ad un illustre studioso. Nel frattempo muore il professore. L'illustre studioso risponde , ma gli scrive la segretaria, informandolo del fatto che il professore è morto. Poi ci sono le carte della storia della morte del sacerdote.
E' un romanzo dove non c'è niente di romanzesco. Lo leggiamo come se effettivamente esistesse la documentazione sul quinto evangelio. Vengono citate battute dei "detti extracanonici di Gesù" riportati da autorevoli padri della chiesa, i resti di una tradizione che Mario Pomilio fa confluire nel quinto evangelio. Un testo bellissimo, appassionante, pur essendo senza personaggi.
C'è poi un romanzo di Nabokov che funziona così: un grande scrittore ha scritto un testo, poi Nabokov ci ha messo la prefazione, le note, le note in calce.
Concludendo, si può affermare che ci sono dei libri in cui determinati meccanismi vengono esibiti, ma tutte queste cose ci sono in qualsiasi libro, cioè un accumulo di documenti riportati da narratori, per esempio i dialoghi sono comunque dei documenti.
Ripeto: queste strutture ci sono sempre. Cercatele e provate a vedere se le trovate.
Fatevi delle domande sui narratori. Che tipo di testo state leggendo? Cosa ci sta dietro?
Potreste fare un esercizio molto utile: scrivete un testo non "scritto da voi", ma la vostra storia raccontata da un personaggio ad un altro. Dovrebbe aiutarvi a intravedere il vero narratore delle vostre storie.
Poi. Prendete le storie che avete già scritto. Immaginate di non essere stati voi e fornite al lettore informazioni sull'autore, sulla base del testo letto, informazioni coerenti con il testo.
Potreste aggiungere prefazioni dell'autore o dell'editore o note in calce sui vostri scritti.
Scrivete poi una biografia lunga dell'autore.
Il giochino di scrivere una nota sulla vita dell'autore di quel testo è efficace e divertente, inoltre tutto ciò può aiutarvi a scovare il vero narratore.

venerdì 13 febbraio 2009

Il mio cammino di Santiago - 6




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Sahagun, sei giugno, mattina presto.
Dopo la colazione nella piazza principale della città, partiamo. Tutte le strade sono transennate con robusti telai e cancelli di acciaio. Domenica ci sarà una festa, libereranno tori per le vie della città e i coraggiosi correranno con loro, gli altri si godranno lo spettacolo. Sperando che nessuno si faccia male. Poveri tori, frastornati, accecati di rabbia e di paura. Queste tradizioni arrivano da molto lontano, fanno parte della storia e della memoria di un popolo, d'accordo, ma tutto questo si basa sulla sofferenza e la morte lenta di povere bestie.
In pochi chilometri siamo sull'altopiano, sempre sugli ottocento metri di altitudine. Il sentiero è diventato più sassoso e sconnesso di ieri - con la mia bici da corsa e le ruote lisce, mi alleno allegramente come slalomista e funambolo - ed il paesaggio è più brullo, ma questa impressione è attenuata dalle numerose specie erbacee che in questo periodo dell'anno producono fiori, fiori di vari colori e fogge per me - purtroppo - sconosciuti. Fa già molto caldo, nonostante l'ora. La strada è diritta, i pendii lievi. I chilometri si sgranano velocemente nell'arco della mattinata, fino alla periferia di Leon, una grande città. Siamo sulla sommità di una collina, il punto di fuga dello sguardo si concentra sulla maestosa cattedrale, tutto intorno si intravede il centro storico, dalla disposizione gradevole, e più all'esterno una caotica urbanizzazione. Discesa a capofitto in strada a quattro corsie.
Michele ha il freno anteriore che si blocca capricciosamente, di tanto in tanto. Arrivati a Leon cerchiamo un riparatore di bici, lo troviamo, Michele risolve il suo problema. Il traffico è caotico, ci dirigiamo verso la cattedrale. Molto simile a Notre-Dame (o è Notre-Dame molto simile alla cattedrale di Leon?), è la cattedrale con la maggiore superficie di vetrate istoriate in tutto il mondo, i vari colori che arrivano mi danno la sensazione di stare all'interno di un caleidoscopio. Gran bella frescura al suo interno, una specie di isola termica. Colonne che sembrano sequoie, il tetto che solletica il cielo, tre navate lunghissime. Molti pellegrini con il naso per aria. Un senso di grandezza che mi ricorda molti monumenti e vie di Parigi. Ma qui ci sono molti più sorrisi, più accoglienza, più apertura.
Rimaniamo inchiodati in un bar della piazza, ci facciamo fuori un gran numero di bocadillos e bevande. Ripartiamo, il centro storico è altrettanto colorato, come la cattedrale; colori di magliette dei turisti, colori dei tanti vasi di fiori alle finestre, delle numerose bancarelle, spezie e verdure, indumenti. Il cielo di un turchese che pare che ti caschi addosso da un momento all'altro da quanto è denso e saturo. Bello, tutto bello. Sarà la glicemia che mi è schizzata alle stelle dopo le tre coca-cole. Sarà.
La periferia è il solito casino di strade e traffico, la solita confusione delle grandi città. In una decina di chilometri torna la campagna, il sentiero assolato, i pellegrini, un po' di silenzio.
Bene.
Il silenzio ti lavora ai fianchi, non puoi evitare di non vederti. Devi far pace con te stesso, accettarti, riconoscerti. Riconoscerti è il punto di partenza. Dopodichè puoi cominciare a buttar via un po' di cose ammucchiate dentro te. Cose che ritenevi "indispensabili". Di tanto in tanto avverto che questo silenzio chiede ascolto, allora mi metto in coda, e lascio andare i miei amici un po' avanti. Per un po'. Sì, è proprio così: ho un po' di cose che dovrei buttar via. E un po' di cose che dovrei semplicemente accettare.
Ci sono stati molti anni in cui non ho guardato dentro, non ho ascoltato, e nel momento in cui l'ho rifatto - complice un gran silenzio di un viaggio solitario durato una settimana - non sapevo più chi fossi, e che cosa desiderassi e che cosa io facessi in questo mondo (cosa ancora a me oscura, ma sulle altre due domande ho qualche risposta). E la fatica, compagna del silenzio, accelera questo processo.
Per quaranta chilometri sarà così. Sentiero, campi, "buen camino", "egualmente", sole in aumento, papaveri, grano, fiori, altopiano, monti in lontananza (quelli di domani)...
Stiamo per arrivare ad Astorga, la strada asfaltata si srotola veloce; mentre percorriamo una ripida discesa sento che la bici sbanda un po'. Ruota bucata, in quattro la sostituzione della camera d'aria è molto più spedita, e più allegra. Riprende una divertente discussione. Io sono il "consumista" perché mi son portato dietro cinque camere d'aria, contro le loro due. Loro via via le riparano, io le butto via (una camera d'aria costa tre euro). La questione di principio della bici da leggenda di Bartali contro la praticità, il dibattito è ancora aperto...
Ecco Astorga, un bellissimo albergo del pellegrino (camere da quattro, posto per bici, terrazza, cucina, lavanderia) e un centro storico incantevole. Il sole è ancora alto (oggi tramonterà alle 21,54!), abbiamo percorso 107 chilometri e c'è tempo per una passeggiata, e per una cena a base di pulpo gallego e altre specialità marinare.
L'oceano è dietro quelle montagne. E anche Santiago.

venerdì 6 febbraio 2009

Il mio cammino di Santiago - 5




Cinque giugno, ore sei e mezza.
E' stata una nottataccia, con la fame di aria fresca che mi ha preso a metà notte e mi ha costretto ad andare in bagno - ciò significa aver dovuto effettuare un percorso ad ostacoli al buio tra letti a castello e zaini e scarponi - con un concerto grosso composto da russamenti vari e accessi di tosse. Vedere il sole mi dà un sollievo maggiore del solito.
Si parte, finalmente.
Siamo alla periferia di Burgos, raggiungiamo un bel sentiero in un paio di chilometri, un po' contrariati del fatto che non abbiamo ancora trovato un bar. Il sentiero costeggia un fiume, sui bordi del quale si stendono delle vaste pioppete. A tratti il polline dei pioppi forma dei tappeti nevosi, Mathias - allergico, giustappunto, al polline dei pioppi - ce li segnala in anticipo con starnuti ed occhi rossi. L'attesa per la colazione sarà ampiamente ripagata: dal sentiero spunta una locanda dove ci preparano bocadillos con prosciutto e pomodoro strusciato, paste con crema e cioccolato, torta di mele, spremute. Riprendiamo il cammino, a breve il corso del fiume ci abbandona. Siamo sulla meseta (leggi altopiano), si viaggia costantemente tra gli otto ed i novecento metri. Da come lo presentavano le guide, mi aspettavo un paesaggio aspro con campi bruciati dal sole, probabilmente a luglio ed agosto sarà così. Ma adesso ci sono campi di grano che si inerpicano su falsopiani dal terreno irregolare; sui bordi dei campi ci sono spesso delle pietraie, esiti di bonifica dei campi. E isole enormi di papaveri che ti catturano lo sguardo, che si perdono su per la collina fino ad insanguinare l'orizzonte. Per una quarantina di chilometri sarà sempre così. Vieni cullato da questa sensazione di estrema solitudine. Prosegui in rispettoso silenzio, con le quattro bici che si sgranano sui versanti ripidi e si riuniscono sui crinali. E rivolgi qualche sorriso e qualche "Buen camino" ai pellegrini che di tanto in tanto raggiungi. In molte altre parti del mondo ti chiederesti perchè diavolo queste persone stiano affrontando a piedi questi posti, lontani da ritrovi e attrattive confezionate per turisti, qui no. Il senso comune è stravolto: ci si alza all'alba senza mugugnare, gli alberghi del pellegrino si svuotano simultaneamente in ogni punto del cammino, e si comincia a camminare, o pedalare, e ognuno ha la sua motivazione per farlo, nessuno ti prenderà per matto (ma poi se qualcuno ti prendesse per matto, chissenefrega?).
I saliscendi continuano, verso le undici ne affrontiamo uno abbastanza ripido, cui segue una sassosa discesa a rotta di collo. Finita la discesa si apre un piccolo borgo, tre case una chiesa una fontana una locanda. Ti chiedi come possa qui sopravvivere una piccola comunità. Mi sento investito da un'emozione intensa, anche se non riesco a spiegare esattamente il perché. Provo a spiegarmi, comunque. Sto qui a contemplare questa fontana, queste poche case in pietra che hanno strappato la loro esistenza ad arbusti, e alberi e specie arboree e a rocce; mi sembrano sempre esistite, non riesco ad immaginare il giorno in cui degli uomini hanno decretato la loro creazione. Non chiedono ulteriori espansioni di territorio, non chiedono parcheggi, non chiedono automobili, non chiedono strade. La vegetazione circostante le lambisce, le accarezza. Isole architettoniche. Armoniche.
Dopo un'altra ora di pedalata arriviamo ad una chiesa sconsacrata risalente all'XI secolo, adibita oggi all'ospitalità dei pellegrini, quindici posti letto, niente luce la sera, a parte le molte candele, e il cielo stellato là fuori, lontano da centri abitati. Uno spettacolo, ci assicurano, un cielo stellato degno della massima di Kant. Ci stanno dei signori di Genova a gestire l'accoglienza, lo fanno per due settimane all'anno, poi un'associazione si occupa dell'invio di altri volontari, per quasi tutto l'anno. Chissà, mi domando, quanta gente avranno visto in questi giorni, quante storie avranno ascoltato, quanti sorrisi, quante strette di mano.
Dopo sessantaquattro chilometri ci fermiamo a mangiare a Fromista, un centro agricolo con una chiesa romanica piuttosto imponente, purtroppo è chiusa. E' impressionante la quantità di bevande (cocacola, fanta, birra) che riusciamo a far fuori durante il pasto. Dopo un'ora ripartiamo alla volta di Carrion de los Condes, con destinazione finale Sahagun, altri sessanta chilometri, in cui il sentiero costeggia spesso la nazionale, e così alterniamo l'uno all'altra, tanto per arrivare un po' prima, visto che la giornata non è impegnativa, ma i chilometri sono tanti. Orzo, grano, e qualche paesino.
Ad una ventina di chilometri dall'arrivo si sente già la periferia di Sahagun, e come tutte le periferie di città piuttosto grandi, lo spettacolo peggiora sensibilmente. Fabbriche, prefabbricati di varia destinazione d'uso, depositi di carburanti, case prive di intonaco, come a voler dire che prima o poi le finiranno, appena trovano i soldi per riprendere i lavori.
Una salitona finale in mezzo a scalinate, e siamo a Sahagun. L'albergo del pellegrino è lì, alla fine di questa salita. Anche qui una grande chiesa sconsacrata, ristrutturata, la chiesa de la Trinidad. Doveva essere andato il tetto, l'hanno rifatto di legno chiaro, accostando elementi moderni - tetto, scale, camere, sembrano provenienti da un catalogo Ikea - alle mura esterne, inserendovi al primo piano l'albergo del pellegrino piuttosto confortevole, dotato di sessanta posti letto ed adeguati servizi, e al pianterreno un teatro con platea annessa.
Oggi abbiamo pedalato per centoventiquattro chilometri, abbiamo oltrepassato metà percorso.
L'aria frizzante e vitale dell'Oceano è ancora lontana, qui si respirano gli splendori ed i fasti di un tempo che non esiste più. Un'aria fatiscente, decadente, percepibile in un tramonto che sembra non finire mai, con il sole che indugia a mezz'aria prima di piombare sulle vecchie case di pietra chiara.

domenica 1 febbraio 2009

Il mio cammino di Santiago - 4

Quattro giugno, mattina presto.
Il sonno in un letto vero è stato ristoratore. Non sono solo, mi trovo con tre persone che conosco da meno di ventiquattr'ore, ma l'imbarazzo e i complimenti - chi va prima in bagno, dormito bene, oh sì, ah c'è il sole menomale, allora vado io faccio in fretta, ecc. - sono ai livelli minimi, ai minimi sindacali, insomma non va affatto male. Dopo la solita colazione da migliaia di calorie, prima di uscire dal centro di Najera, ci fermiamo in un piazzale, davanti all'ingresso di una chiesa in stile romanico."Leggo io" fa Michele, apre un libro. Siamo in piedi.
Michele si accinge a leggere il testo dell'antica benedizione del pellegrino. E poi, rivolto a me:
"Noi leggiamo una preghiera ogni mattina prima di partire, non so, se ti va di ascoltare..." Faccio cenno di sì.
Apro una parentesi.
A questo punto della mia vita, ho una convinzione, non suffragata da alcuna certezza: credo che nel momento in cui ci trasformeremo in cibo per vermi - per dirla come il professor Keating di "L'attimo fuggente" - non sarà tutto finito, come pensa il professor Keating; di cui condivido, del resto, molto di ciò che viene narrato in quel film. Credo in questo, per il resto brancolo nel buio. Non è molto. Con tutto ciò, mi capita, mi è capitato, di imbattermi per caso - e di dovermi confrontare, un confronto sui generis, del tutto silenzioso - con altrui esperienze - testimonianze forti - di tipo religioso-spirituale.
Faccio due soli esempi.
Diversi anni fa decisi - dopo aver cominciato a scrivere qualche racconto - di iscrivermi ad un gruppo di scrittura creativa di cui faccio ancora parte, e mi misi a leggere tutti gli "editoriali" del fondatore di tal gruppo, Antonio Spadaro. Quei brani mi colpirono molto per la loro profondità, per la loro chiarezza espositiva ed incisività. Solo dopo un paio di mesi seppi che Antonio è un gesuita, il che - ovviamente - non cambiò minimamente il giudizio della persona che mi ero fatto, solo che, concedetemelo, mi sorprese un po'.
Lo scorso luglio partii una sera da Lucca, e feci due ore e mezzo di macchina per assistere alla conferenza di Marco Lodoli, uno scrittore che amo molto. Solo che quando arrivai a destinazione, a Romena nel Casentino, seppi che era cambiato il programma, ed al suo posto avrebbe parlato Arturo Paoli, un prete ultranovantenne che - guarda il caso - è di Lucca. Parlò della sua vita, sempre dalla parte dei più deboli - dei contadini del Chapas, dei desaparecidos, dei bambini di strada di Rio dove ha fondato una casa di accoglienza, tanto per fare qualche esempio - e parlò molto di leggerezza, qualità essenziale per il suo cammino spirituale. Fu una sera bellissima e per me significativa.
Fine della parentesi.
E adesso mi trovo - praticamente per caso - davanti a Michele, che sta per leggere l'antica benedizione del pellegrino. Michele, che si sposerà il quattordici di luglio, che vuole portare a termine il Camino come buon auspicio per il suo matrimonio, per la sua futura famiglia, che sta viaggiando insieme con Mathias, suo caro amico nonché testimone di nozze. Adesso legge.
"O Dio, che portasti fuori il tuo servo Abramo
dalla città di Ur dei Caldei, proteggendolo
in tutte le sue peregrinazioni, e che fosti la guida
del popolo ebreo attraverso il deserto,
ti chiediamo di custodirci, noi tuoi servi,
che per amore del tuo nome andiamo pellegrini
a Santiago de Compostela.
Sii per noi compagno nella marcia, guida nelle difficoltà,
sollievo nella fatica, difesa nel pericolo,
albergo nel Cammino, ombra nel calore,
luce nell'oscurità,
conforto nello scoraggiamento e fermezza nei nostri propositi,
perché, con la tua guida, giungiamo sani e salvi al termine
del Cammino e, arricchiti di grazia e di virtù, torniamo illesi
alle nostre case, pieni di salute e di perenne allegria e pace.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
San Giacomo, apostolo di Gesù, prega per noi.
Maria, madre di Dio, prega per noi."
Dopo la preghiera rimontiamo in silenzio sulle bici.
Partiamo. Ci aspetta un percorso misto, un po' asfalto e un po' sterrato. Dopo pochi chilometri troviamo sul sentiero alcuni "cuori di pietra", tra cui uno di dimensioni che supera il metro quadro. Tante pietre chiare messe in fila a formare un cuore, nel Camino ci si può perdere anche a disegnare un cuore, come può fare un bambino al mare con la sabbia bagnata. L'arrivo a Santo Domingo de la Calzada è preceduto da vigneti che si perdono a vista d'occhio. Una breve visita ad una cattedrale romanico-gotica e ad un antico e suggestivo Albergo del pellegrino, poi ci immergiamo in altri sentieri. Sono uscite delle nuvole, il clima è caldo umido, afoso. Si va in leggera ma costante salita, per chilometri e chilometri. Ancora vigneti, alternati a commoventi campi di grano. I fruscii delle spighe sono la nostra colonna sonora, non si incontra un'anima - solo qualche pellegrino, di tanto in tanto - e a guardarle per qualche minuto ti sorprendi: il vento conferisce loro l'aspetto di un quadro impressionista che cambia di momento in momento - ora verde chiaro, ora verde smeraldo, ora giallo, e ancora verde, e poi chi lo sa - e il sentiero che dovremo percorrere pare divertirsi a zigzagarci nel mezzo, fino ad essere ingoiato dal bordo della collina. Granon, Villamayor, Belorado, Tosantos, che bei nomi, e via, e via, altri paesi, sempre e costantemente verso ovest. Sempre in lieve salita, non molla. Ci fermiamo a mangiare a Villafranca de Montes de Oca alle due del pomeriggio, dopo sessantacinque chilometri, in una trattoria frequentata da camionisti, in genere una garanzia di un buon rapporto qualità-prezzo. E infatti la zuppa, il pollo arrosto, i fagioli, il flan danno buone sensazioni, e poi la fame è tanta.
Ci rimettiamo in sella. Io sono stanco, e dopo aver dato un'occhiata al percorso da fare, mi spavento, e decido di abbandonare i compagni di strada e percorrere la strada asfaltata. C'è una notevole pendenza da fare, bisogna arrivare in pochi chilometri dai 600 ai 1100 metri di altitudine, non me la sento di affrontare la strada sterrata con la mia vecchia bici da corsa con rapporti duri e fascioni lisci. Ci diamo appuntamento all'Albergo del Pellegrino di Burgos, ci scambiamo i numeri di telefono, ci salutiamo. Un po' di rammarico, abbiamo già condiviso strada insieme, speriamo di condividerne altra.
La salita sulla N120 è intervallata dal passaggio di camion, che quando scalano di marcia, fanno tramare l'asfalto, e ti intossicano di gas nauseabondi. La pendenza non è terribile, cinque-sei per cento, solo in rari punti arriva a otto-nove, ma avverto la fatica. Dopo alcuni chilometri, quasi un'ora di salita, raggiungo il passo, “La Petraia” a 1150 metri.
"Toniiii" mi giro verso la collina sulla mia destra, vedo i tre amici, Paolo, Mathias e Michele che mi urlano sorridenti. Mi viene voglia, come ieri, di raggiungerli, ma in questo caso le strade non si possono congiungere.
"Ci vediamo a Burgos! Buen camino!" Auguro loro, e sorrido anch'io.
Discesa a capofitto, quasi a sessanta all'ora, la strada si è allargata, anche la valle. Verso sinistra pascoli, e alberi, e rilievi lontani. La strada si fa pianeggiante, è un altopiano sugli 800 metri, l'aria è più fresca di stamattina. Ed ecco un incontro inaspettato, proprio come il secondo giorno. Un'aquila. Mi fermo ad osservarla. Volteggia su di me, è vicina. Provo a scattare qualche foto, a casa mi renderò conto che non la ritraggo nemmeno una volta, a parte un puntino lontano, quando sarà già all'orizzonte, sarà stata l'emozione, oppure quell'aquila è dentro me, e per questo impossibile da ritrarre. Volteggia, segue le correnti d'aria, pare che giochi. C'è silenzio, non passano camion, non passa nessuno, io e l'aquila. Spreco aggettivi scontati. Maestosa, flessuosa, elegante, morbida, imponente. Pare non avere alcuna fretta. Si allontana, pian piano, con percorso per niente lineare.
La saluto.
Via via che ci si avvicina a Burgos il traffico aumenta, è fastidioso. In un cartello di protesta, lungo la strada, leggo che il numero di morti per incidenti stradali, su questa N120 è in aumento negli ultimi anni, in trent'anni un'ecatombe. Il centro di Burgos è piacevole, mi fermo a vedere la maestosa cattedrale - si vedeva da una distanza di venti chilometri, tale è la sua imponenza - e poi mi metto alla ricerca dell'albergo del pellegrino, dalla parte opposta della città rispetto a dove sono arrivato. Arrivo alle sette di sera, ho fatto novantasette chilometri. I miei amici arriveranno alle otto - più sterrato e più salite, e un bel convento immerso nel verde, che mi rammarico di non aver visto, ma forse è stata per me la scelta giusta - e sono contento di vederli, credo anche loro lo siano. L'albergo del pellegrino di Burgos è una specie di lager, una sessantina di posti letto - letti a castello letteralmente appiccicati uno all'latro - in un prefabbricato non particolarmente ampio, è la peggiore sistemazione del Camino, lo sconsiglio vivamente. Se lo conosci lo eviti, noi non abbiamo avuto il tempismo di evitarlo. Il Camino, lo ripeto, è anche questo.
Una buona cena, e a letto.