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venerdì 26 dicembre 2008

Il mio cammino di Santiago - 2



Oggi è il due giugno 2007.
E’ l’inizio del cammino vero e proprio. Mi sento in una condizione di pura possibilità, tutto può accadere. Sono a Saint Jean Pied de Port, a duemila chilometri da casa, solo, con un vago obiettivo, una bici e tre zaini. E me stesso, le mie gambe, la mia testa. Un misto di gioia, curiosità, paura, proprio come ieri pomeriggio, solo un poco più di gioia e un po’ meno timore. Guardo fuori della finestra dell’albergo, il cielo è coperto. Può accadere, per esempio, che oggi piova sui Pirenei. Finisco di sistemare gli zaini sulla bici, faccio una colazione da spavento. Croissant, un bricco di latte, uno di caffè, marmellatine, burro, pane tostato, succo d’arancia, sulla tavola avanza solo una bustina di zucchero. Parto. Ci sono due strade, appena fuori del paese. Una passa sopra il cocuzzolo del monte su strada sterrata, l’altra passa per Valcarlos, un po’ più bassa su strada asfaltata. Prendo quella asfaltata, anche perché sulla guida al cammino si consiglia di non fare la strada più alta in caso di pioggia, in qualsiasi periodo dell’anno. La pendenza non è forte, la salita è costante. Appena lasciato Saint Jean Pied de Port comincia un bosco, che di tanto in tanto lascia spazio a pascoli, a mucche e vitelli che alternano lo sguardo tra il terreno e me. Eppure dovrebbero essere abituati a veder passare gente. Dopo circa un’ora qualche casa e dei cartelli mi annunciano la fine della Francia e l’inizio della Navarra. Le zone di confine. Qui sei con i francesi, fai un passo più in là e senti parlar spagnolo. Oggi c’è continuità territoriale, un tempo la frontiera, il gioco delle guardie e ladri, le storie e le leggende sui contrabbandieri, di uomini che camminavano di notte fino allo sfinimento, sfidando altri uomini ed i Pirenei, imprecando contro dio ed il cielo tutto. Un bel giorno arriva Schengen, poi la moneta unica ed il gioco è finito.
Comincia a piovere. Prima una pioggia fine, impercettibile, poi sempre più forte, insistente. Mi metto la felpa, il k-way. Fa freddo. Mi metto anche una calzamaglia, il cappello sotto il caschetto. Ho vaghe sembianze del comandante Nobile in procinto di esplorare la calotta polare. La valle si fa più stretta, la striscia d’asfalto si apre a forza sul versante del monte tappezzato di fittissimo bosco, non entrerebbe nemmeno uno spillo. C’è la nebbia, adesso. Vedo all’improvviso prendere forma due signori in cammino con un poncho impermeabile addosso.
Mentre li supero, uno dei due si volta verso di me con il viso gocciolante di pioggia e mi sorride esclamando:
“Buen camino!”
“Buen camino!” rispondo io.
Dopo la prima apparizione, mi aspettano altri incontri con pellegrini a piedi o in bici. Il sorriso è il denominatore comune. La salita non molla, la pioggia nemmeno. In fondo la nebbia accresce il senso di imprevedibilità, propria dell’inizio dei viaggi, vedi le cose solo nel momento in cui ti ci trovi, impossibile pianificare. Sto pedalando da diciotto chilometri, vado a meno di dieci chilometri l’ora, sto raggiungendo i mille metri, la salita non molla, non molla la pioggia, arriva la fatica, ma non insopportabile. Questa valle – e anche il primo paese della Navarra – è chiamata Valcarlos, in onore di Carlo Magno. Da questi luoghi trae origine la tradizione dei pupi della mia – mia almeno per origine, per metà sangue che mi scorre nelle vene, e per il bene che voglio a quella terra - Sicilia, a tremila chilometri da qui, che raccontano le storie dei paladini di Francia. Onore ai paladini di Francia, e onore ai loro antagonisti, i Mori, gli antichi Arabi che tanta bellezza e civiltà hanno lasciato nei posti in cui hanno vissuto, come nel nostro meridione e in tutta la Spagna. I miei pensieri - complice la fatica – si abbandonano alla solennità del luogo, alla traduzione di letture - scarne cronache sui libri di storia - in pezzi di realtà - angoli di cielo e terra, profumo di muschio e abeti, e di vento, vento che man mano che si sale comincia a farsi sentire – che ti danno un’esperienza profonda, un sentire a tutto spessore, con tutti e cinque i sensi. Raggiungo l’alto de Ibaneta, il passo a 1100 metri. Scendo velocemente, la ruota anteriore mi schizza acqua terrosa sul k-way, e in qualche chilometro arrivo a Roncisvalle, e qui il pensiero va ad Rolando, alla sua spada, al suo Olifante, alla retrovia presa in trappola. E’, in effetti, un luogo ideale per un agguato.
Raggiungo l’albergo del pellegrino, la reception è in uno stanzone lungo e stretto con muri in pietra, un tavolone in fondo e panche lungo i muri, popolate di umanità variegata - inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, giapponesi, americani - e di vestiti inzuppati di pioggia appoggiati su stendini di fortuna, e su qualche sedia. C’è calore, parole dette a bassa voce, sorrisi e sguardi. C’è comunione di intenti, un obiettivo comune, Santiago di Compostela..
Vado al tavolone in fondo dove ottengo da una gentile senorita la mia credencial del camino, un importante cartoncino pieghevole che attesta la mia condizione di pellegrino e mi dà diritto a dormire negli albergues, e il mio primo sello, il timbro che dimostra che sono passato di qui, da Roncisvalle. Mi cambio la maglia, e mi fiondo all’osteria vicina. Spolvero in poco tempo una zuppa di legumi, poi pesce arrosto con patate, un budino, acqua, vino, caffè, tutto a quindici euro.
Esco, rimetto i bagagli sul portapacchi e riparto. Qualcosa è cambiato, un cambiamento repentino, di quelli che avvengono solo in montagna: il cielo si è aperto qua e là, lasciando qualche sprazzo di blu intenso, le nubi sono meno minacciose, non piove. Mi aspetta una lunga discesa, la valle si apre, ritornano i pascoli, l’aria ora è tersa.
Discesa a capofitto, poi percorso vario con qualche saliscendi non impegnativo, segnato da fiumiciattoli. Ho imparato che quando con un ponte attraversi un corso d’acqua, finisce la discesa e comincia la salita. In un terreno collinare o montuoso è sempre così.
Raggiungo la periferia di Pamplona, perdo la fatidica freccia gialla che dà sempre la giusta via, passo per il centro, decido di non addentrarmi nel centro storico - non so, non mia attira più di tanto, e poi è meglio che faccia ancora strada, vorrei arrivare sabato 9 giugno a Santiago, so che non sarà facile e che devo percorrere almeno un centinaio di chilometri al giorno per sperare di farcela. Intuisco, anche se sono all’inizio del viaggio, che il Camino non è delle grandi città: è dei piccoli borghi, dei campi che si perdono a all’orizzonte, dei monti, dei sentieri ingoiati nella V di due colline. Le città sono un semplice corollario.
Mi perdo nella periferia, non riesco a trovare il Camino, dopo più di mezz’ora – nella quale rischio seriamente di entrare in autostrada – trovo una provinciale che mi porta verso l’alto del Perdon, risalendo a 800 metri di altitudine, in mezzo a campi di grano sferzati dal vento che danno riflessi cangianti di luce solare. E’ qui che mi prende un’emozione intensa, frutto di un incontro: un’aquila sopra di me, che volteggia e pare quasi che mi segua. Questo simbiotico stato di grazia – i volteggi del rapace che hanno la mia stessa direzione, chissà se il rapace gode della mia presenza, mi piacerebbe – dura cinque minuti buoni, e mi sento grato a quell’essere colmo di eleganza, mi sento grato alla vita di essere qui. Lo seguo con gli occhi finché non si perde all’orizzonte. Il cielo è ancora nuvoloso, ma queste son nuvole allegre, l’aria è fresca, per fortuna qui il sole tramonta più tardi che in Italia, potrò vedere di raggiungere Puente de la Reina. Delle pale a vento per l’energia eolica mi accolgono in cima al colle, un rumore sordo, continuo, un vento che mi sospinge alle spalle. Altra discesa a capofitto, Puente de la Reina è a una ventina di chilometri. La raggiungo, ho percorso 102 chilometri, sono stanco e sono quasi le nove di sera, entro nell’albergo del pellegrino. La reception è già chiusa, faccio il giro delle camerate, c’è un letto non contrassegnato da sacchi a pelo o zaini, solo una coperta, è libero, appoggio un mio zainetto. Ho una fame tremenda, farò la doccia in fretta per assicurarmi una cena abbondante. Il sole tramonterà verso le nove e venti.
Dopo una cena a base di bocadillos e tapas, rientro all’albergo del pellegrino, e mi rendo conto che il letto che ritenevo libero è occupato, la coperta era il segnaposto di un signore.
Dovrò dormire per terra con il sacco a pelo senza materassino.
Non mi importa niente, quell’aquila mi terrà compagnia. Nei miei sogni, nel mio immaginario.
Il cammino è appena iniziato, a domani.
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sabato 20 dicembre 2008

Il mio cammino di Santiago - 1

--> Lo scorso anno percorsi il cammino di Santiago in bicicletta. Un'esperienza indimenticabile, che consiglio a chiunque abbia un po' di tempo e un minimo di forma fisica per camminare o pedalare tutti i giorni per una settimana, due, un mese. Ovviamente non va vista come una impresa fisica, no. Qui i visi delle migliaia di persone che incontri in tutti i periodi dell'anno, i sorrisi soprattutto, si mescolano con le strade infinite della Spagna, i cieli blu cobalto, gli alberghi del pellegrino, con la solidarietà, le strette di mano, la fatica, le gioie, i bagagli, i tuoi stati d'animo,e anche con la curiosità di sapere se un'esperienza del genere ti darà qualche feedback importante sulla tua vita, quella che riprenderai al tuo ritorno alla tua Itaca, se un'Itaca ce l'hai. Al mio ritorno scrissi un resoconto, e chiesi ed ottenni ospitalità nel blog di un amico, Marco Candida, che ringrazio. Ho pensato di riportare anche qui il mio resoconto di viaggio. Nove puntate di nove giorni per me memorabili. Per evitare l'indigestione da parte dei miei quattro lettori, ne pubblicherò uno a settimana.
Il mio cammino di Santiago

E' il primo giugno 2007.

Sto guardando dall'oblò dell'aereo la linea netta, orizzontale che suddivide il bianco delle nuvole dal blu del cielo. Sono abituato a vedere le nuvole in alto, al di sopra del mare. Queste nuvole sormontate da un blu che potrebbe essere mare mi danno l'idea che il senso comune debba essere sovvertito in questi giorni.

Sono solo. Mi tengono compagnia le parole di Pier Vittorio Tondelli, Camere separate. Comincio il libro, lui scrive:

"Un giorno, non molto distante nel tempo, lui si è trovato improvvisamente a specchiare il suo viso contro l’oblò di un piccolo aereo in volo fra Parigi e Monaco di Baviera. All’esterno, ottomila metri più sotto, la catena delle Alpi appariva come una increspatura di sabbia che la luce del tramonto tingeva di colori dorati. Il cielo era un abisso cobalto che solo verso l’orizzonte, in basso, si accendeva di fasce color zafferano o arancione zen. Inquadrato dalla ristretta cornice ovoidale dell’oblò il paesaggio gli parlava del giorno e della notte, dei confini fra i mondi della terra e dell’aria e da ultimo, allorché si accese una luce nella carlinga e su quell’olografia boreale apparve il riflesso del suo volto appesantito e affaticato, anche del sé..."

Leggo questo straordinario incipit ad ottomila metri di altezza, in Francia, avendo appena rivolto lo sguardo all'oblò, a quella terracielomaremonti, ed avevo scelto per caso questo libro - da tempo volevo leggerlo - la sera prima, a casa mia, tra i miei numerosi libri che non ho ancora letto. L'ho scelto intuendo forse l'incipit, leggendolo attraverso la copertina? Non è la prima volta che mi accade una sovrapposizione di eventi così netta, e questo mi accade con maggiore frequenza durante un viaggio. Forse non si inventano le storie, semplicemente si raccontano in modo diverso. Persino gli accadimenti sono talvolta gli stessi, è diverso l'occhio, il punto di vista, e l'andatura.

Il cammino. E' ciò che desidero fare in questi giorni.

Camminare, a modo mio.

La bicicletta sarà il mezzo, un modo di vedere, nient'altro. Il fine? Non lo conosco, per quanto voglia arrivare a Santiago, vicino a Finisterre. Il cammino, il viaggio assume un'importanza maggiore del fine, della meta. Metà, o quasi tutto, è il cammino, e l'arrivo è solo un attimo. Nel quale tutto viene inghiottito, spazzato via dal ritorno, dal senso comune che riprende il suo posto, nel quale il mare starà al di sotto delle nuvole. Ma questo avverrà il dieci giugno. Oggi è il primo giugno.

Continua a guardare fuori dall'oblò, e buen camino, Toni.

Arrivo a Biarritz alle tre del pomeriggio, dopo due tratte aeree (Pisa-Londra, Londra-Biarritz), attendo il borsone con la bici sul nastro degli "Oversize luggages". Sono solo, tutti stanno all'altro nastro, quello un po' più stretto, quello di senso comune. Arriva, me lo trascino fuori dell'aeroporto. Faccio un veloce spogliarello e mi rivesto da ciclista. Rimonto la bici, gonfio le ruote, piego e metto il borsone portabici in fondo allo zaino, attacco gli zainetti laterali sul portapacchi che sta dietro. Non trovo l'intelaiatura per poter appoggiare il borsino - quello dove ripongo mappa, soldi e documenti - sul manubrio. L'ho lasciata a Lucca. Cazzo. Dovrò per tutto il viaggio legare la borsina dietro, sullo zaino centrale. Che poi, quest'ultimo, è anche pesante, ho esagerato con i bagagli, e mi sporge oltre la ruota posteriore. Mi innervosisco, ci sono alcune gocce di pioggia. Devo andare. Chiedo ad un tassista la strada per St.Jean Pied de Port. Prima rotonda sinistra, poi prendi la seconda rotonda a sinistra e dopo tre chilometri a destra. Il problema è che per me la seconda rotonda lo era dal momento in cui ho girato alla prima, per lui era la seconda in assoluto. Me ne accorgo dopo tre chilometri. Devo tornare indietro, mi sono infognato nella trafficatissima N10 che va verso San Sebastian. Solo che non posso attraversare la strada, dovrò camminare con la bici a piedi contromano, stando attento di non essere beccato da una delle tante macchine che sta provando in pista il giro più veloce. Dopo mezz'ora ritorno al bivio che mi porta verso la D918 per St. Jean. Sono le cinque e mezzo, devo arrivare prima del tramonto, sessanta chilometri all'arrivo. Tre chilometri di traffico e smog, poi con la D918 va meglio. Saliscendi, boschi e un paesino di tanto in tanto. Ho paura. Un po' per la pioggia, temo che mi sorprenda da un momento all'altro, un po' per i bagagli - rimarranno stabili? - che mi sembrano anch'essi oversize, un po' per questa strada che a tratti va a quattro corsie - non è proprio deserta, il traffico locale aumenta vicino ai paesi - con furiose discese e lente risalite. E per la luce. Non so a che ora va giù il sole, ma spero che tramonti almeno mezz'ora più tardi che da noi.

Alcune di queste paure si affrontano sempre al primo giorno, è così, per forza.

Dopo una quarantina di chilometri mi fermo ad una patisserie-brasserie-bar. Mangio un pezzo di torta di mele, buonissima, compro acqua fresca - ero partito con una sola bottiglietta - e scambio due battute con il tedesco Fabien, che viene da Monaco e ha già percorso duemila chilometri in bicicletta, ora va verso Biarritz, risale per la via atlantica, a lui non piacciono le salite forti, e vuole avvicinarsi a Santiago guardando costantemente l'Oceano. E' da più di un mese fuori di casa, ha finito gli studi e non ha ancora cominciato a lavorare. Ci salutiamo. Buen camino, è la prima volta che me lo sento dire. La prima volta che lo dico.

Gli ultimi venti chilometri sono un saliscendi che sale più che scendere, visto che St. Jean è a 230 metri di altitudine. Mi rilasso un po', arrivo che manca un quarto alle nove. E' un bel paesino, borgo medievale, un fiume, una porta antica, è deserto, sta cominciando a piovere. L'ufficio del turismo è chiuso, non sapendo che l'albergo del pellegrino - dove mi sarei potuto fermare a dormire, ne avessi intuito l'esistenza - e la sua accoglienza sono una cosa diversa. Cerco un albergo, trovo una camera. Quando esco per mangiare piove a dirotto, il che mi rallegra. Mi ha permesso di arrivare tranquillo a destinazione, anche se non mi fa ben sperare per domani, per i Pirenei da attraversare.

Insomma, sono al punto di partenza del Camino, le sensazioni sono ambivalenti, paura, timore, curiosità, desiderio di muovermi anche se lentamente, ma non ho ancora rovesciato il senso comune, il mare è ancora sotto di me. Spero nella partenza di domattina. Spero in questo viaggio, anche se non so cosa esattamente sperare.

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giovedì 11 dicembre 2008

L'attesa



( Da Repubblica del 21/11/2008: Si è suicidato a 19 anni in diretta web. Abraham K. Biggs, secondo una prima ricostruzione, ha ingerito un cocktail letale di pillole mentre trasmetteva la sua immagine davanti alle webcam della famosa e seguitissima Justin Tv, un sito di live videostreaming. Tutto sotto gli occhi di altri 1500 utenti della comunità virtuale che, forse convinti si trattasse di una messa in scena, avrebbero addirittura incoraggiato il giovane a compiere il gesto.).




Sono stanco. Non gliene fotte a nessuno di me. Ma oggi è un gran giorno. Il giorno del giudizio. Mi levo dai coglioni, gente. In grande stile. Poi vi dirò com'è andata, no, magari...Io ve lo direi, boh che cazzo ne so, insomma mi piacerebbe dirvelo.
Sarebbe anche interessante vedere quelle facce di merda al mio funerale. Tutti che fanno a gara a chi piange di più. Ci sarà la stampa, immagino. Tutti gli amici della palestra, gli scoppiati di testosterone che non gliene frega un cazzo di me, ma almeno trovano l'occasione per mettersi un po' in mostra davanti alle telecamere. Ci sarà lei, sicuro. Me la immagino a dire "rest in peace", quella zoccola da 100.000 dollari all'anno. Rest in peace. Mi ha scaricato per il tipo danaroso, con la Corvette Cabrio. Vaffanculo. Un po'di piantini, cara, e vai, le telefonate raddoppiano; così la grana aumenta. Ha delle gran belle tette, lei. Me la sono ripassata un bel po'. Ora va col tipo. Ma insomma, ho fatto delle gran belle trombate, anche se ho solo 19 anni.
Basta, sono stanco. Mi spiace per i miei vecchi, per il mio pa'. Ce l'ha messa tutta, poveraccio. Il college che non funzionava, poi il lavoro. Marco sempre visita, vero pa'? "Non deludermi figliolo." Mi diceva di continuo, il mio vecchio. E io invece del college tutta la notte in disco a sballarmi. Con un po' di grana, quella manca sempre. Chissenefrega adesso cosa manca. Chissà come funzionerà. Che sentirò? Io non sento niente, è questo il problema. Anzi, no, sento; sento quando mi arriva la merda, è fortissima, mi travolge. Non sopporto di passare altri 60 anni di questa merda. Domani questa merda non ci sarà più, gente. Il lavoro che non ce la faccio ad alzarmi, come al college. Tutte quelle ore uguali, e quei giorni uguali. Neanche mi prendono sul serio. Ho messo l'annuncio sul sito, qualche commento e qualcuno mi ha detto "Dai, fallo. Tanto non hai il coraggio."
Chissà che penserà, dopo, il tipo. Prima di lei c'erano Paula, Stephanie, Linda. Non mi davano niente. Linda mi odia. Dopo la scopata, una sigaretta e sei come prima. Sì scopare è uno sballo, come lo sballo che è uno sballo anche quello, ma dura poco. Ti devi fare un culo così per rimorchiare, poi la scopata è un soffio. Bello, ma dopo ritorna la merda. Cazzo. Il dottore dice che sono crisi adolescenziali. Passeranno. Un cazzo. Io lo so, fottuto dottore che torneranno sempre. Ci rimarrai male anche tu, fottuto dottore.
La mia sorellina. Lei non c'entra niente con questa merda, anzi è bene che lo scriva che i miei vecchi e la mia sorellina non c'entrano. E' una questione solo mia. Al vecchio vorrei dire:"Pa', ci ho provato. Non ce l'ho fatta."
Voi non c'entrate, è chiaro. E' chiaro, no? La questione è tutta quella merda che mi arriva addosso. Questo sì, è bene che lo scriva.
I contatti aumentano. I chattatori del cazzo transitano e guardano e pensano e scrivono:"Fottuto nero con la puzza sotto il naso, sì sei un fottuto nero che non ha il coraggio di fare quello che hai detto." Poi si levano di culo.
"Lo vedrete tra poco" Scrivo.
"Sì? Dai faccelo vedere. Non hai il coraggio, fottuto nero."
"Lo vedrete."
Ora prendo il cocktail. Xanax, valium, fenobarbital. Sembrano alieni. Alieni che mi portano via. Guarda quanta gente che mi vede. Guarda là.
Ora. Adesso. Giù, un sorso. Via.
"Che cazzo hai preso, Abraham? Le caramelline della mamma?"
"Ma chi vuoi prendere per il culo, fottuto nero?"
"Hey Biggs, che hai preso? Non farai sul serio?"
"Fottiti Abraham."
Ora basta guardare. Che faccio? Spengo la webcam? No. Chissà, forse qualcuno vedrà il momento, lo riconosce anche se dormo. Vede volare l'anima. In quel momento, come si chiamava quel film? Ah sì 21 grammi. Tra un po' se ne andranno 21 grammi. Basta. Mi sdraio.
Quanti saranno a guardarmi? 1000? 1500? Secondo me tra un po' arriva uno sbirro e mi porta all'ospedale. Quasi quasi sarebbe carino, forse lei mi riconsidera, forse me la scopo un altro po'. Sarebbe una buona cosa per i miei vecchi, soprattutto. Che faccio? Scendo dal letto e chiamo il 911? Quasi quasi. Ho un po' di strizza. Non è che ho fatto una cazzata? Ma tra un po' arriva lo sbirro, sì, arriva. E' impossibile che non arrivi, cazzo. Millecinquecento persone, un gran teatro, qualcuno avrà già chiamato. Telefono io o aspetto lo sbirro? Aspetto, dai.
Faccio un sonnellino e aspetto.

domenica 16 novembre 2008

Non luogo



Martedì scorso, l'undici novembre, avevo qualche ora libera la mattina ed ero in dubbio se uscire in bici o no. I dubbi erano alimentati dalla pioggia, nonostante le buone previsioni per quel giorno, nonostante la buona fama dell'estate di San Martino. Verso le dieci vedo una spera di sole, sono ancora in tempo per uscire. Mi preparo, mi ingozzo con miele e marmellata, esco.

Destinazione Monte Serra, un monte che separa Lucca da Pisa. Ci vuole una mezz'ora per arrivare alla base del monte, poi salita per dieci chilometri. Al quarto chilometro mi cade il cielo addosso. Mi fermo per infilarmi il k-way, non so se tornare indietro. Non fa tanto freddo, ci sono una decina di gradi e sono accaldato dalla fatica. Decido di proseguire.

Gli scrosci d'acqua si mescolano con il rumore del torrente vicino. Poi la pioggia diminuisce di intensità, fino a stabilizzarsi in un aerosol, una pioggia fine che non fa paura, che mi consente di rimettere in moto il pensiero. La nebbia fitta, improvvisa, mi impedisce il panorama; c'è solo la striscia d'asfalto biancastra, attraversata da rigagnoli di tannino che cola dai castagni e tappezzata per buona parte da foglie secche, ormai ridotte a pappa dalla pioggia. Solo la strada, dunque, che si srotola come su un lungo tapis-roulant, il resto è tutto uguale: nebbia, foglie, asfalto, pioggia, non cambia niente.

Niente.

Sono in un non-luogo, nonostante conosca molto bene ogni singolo tornante di questa strada. Un non-luogo, un monte che potrebbe essere ovunque. Mi affiora il ricordo di Portella Mandrazzi, sui Peloritani, ero solo come adesso. Avevo valicato il passo, c'era stata una piccola scossa d'acqua, poi sbucò improvviso quel guard-rail, e su quel guard-rail una scritta dalla grafia incerta: "Mi manchi tanto". Dopo alcune ore in bici da solo e dopo una buona parte di esse senza incontrare anima viva, le categorie del pensiero si alterano. Per un attimo mi ero chiesto a chi potessi io mancare, in quel modo così disperato da doverlo scrivere su un guard-rail di una strada deserta per quasi tutto il giorno, per quasi tutti i giorni dell'anno, dopodiché la ragione mi aveva brutalmente spiegato che quel messaggio non era rivolto a me. Spero, comunque, che sia arrivato all'interessata/o. Un messaggio in bottiglia semplice, onesto, anonimo. Utile forse più a chi lo ha scritto, per ricordarselo, ogni volta che passa di lì, e lasciarsi struggere per un attimo dalla malinconia. La mancanza, la sagoma sul muro di un quadro assente, un quadro che è stato su quella parete per tanto tempo. Quel quadro che ci manca.

Arrivo in cima al Monte Serra, devo fare uno sforzo di immaginazione ulteriore per ricordare che da quel masso sotto la strada si vede Pisa e piazza dei Miracoli, Livorno, Montenero, la Gorgona, la Capraia, la Corsica e l'Elba, l'Arno.

Solo nebbia, una strada, foglie e pioggia.

Come in un sogno dalle tinte forti, rincorro un pensiero, un'intuizione importante che afferro per un attimo, ma che mi sfugge come può farlo un'anguilla. Si allontana, sempre più, fino a sparire, non c'è nemmeno la possibilità, il tempo di scriverlo.

Riaffiora la nebbia, una strada, foglie e pioggia.

mercoledì 29 ottobre 2008

In casa, di sera. Fuori piove


Oggi è stata una giornata piovosa.
Da un po' di tempo desideravo una giornata del genere, una di quelle in cui guardi fuori della finestra e non hai dubbi sul fatto che, sì, l'acqua continuerà imperterrita a scendere dal cielo, ed è desiderabile starsene a casa, un po' raggomitolati su sè stessi come la mia gattina nera. Momenti di stop che ti consentono di riflettere, di fermarti sul ritmo ipnotico del tergicristalli se sei in auto o sul ticchettio della pendola del corridoio, e per contrappunto evocare le giornate di sole che svaporano dai ricordi. Ecco venir fuori gli ultimi rimasugli di una vacanza in bici di qualche settimana fa. E' lontana anni luce per colori e sensazioni.
La bici è in garage, gli zaini vuoti.
Ho in mente un po' di volti: a Marsala un gruppo di uomini di colore che fanno il bagno e si schizzano a vicenda, uno di loro mi guarda, un sorriso a trentadue denti e mi saluta sbracciandosi.
Sempre a Marsala un ragazzo di una ferramenta, esperto in nodi da marinaio mi aiuta legando una fune a tenere gli zaini più fermi possibile intorno al portapacchi, non vuole soldi per la sua fune. E' molto stupito del mio viaggio appena iniziato e della mia destinazione: "E che vai a fare a Milazzo? Devi fare una gara?".
A Montevago il barista che molla il bancone, prende la macchina per portarmi ad un bivio difficile. Lo stesso succederà a Lercara Friddi; un signore con valigetta in pelle appena uscito di casa mi farà strada con la sua auto fino all'uscita del paese.
Ad Alia il vecchio, malato, di cui ho raccontato in un post precedente, che si allontana con la mano sinistra avvinghiata al suo striminzito - come lui - sacchetto della spesa. Sempre ad Alia un vigile mi accompagna fin dentro la chiesa posta alla sommità del paese, mi racconta del castello normanno.
A Sperlinga in un bar anziani e giovani siedono scomposti, si agitano e parlano in un dialetto incomprensibile. Da decenni si offrono vino e birre vicendevolmente.
A Novara di Sicilia, una ragazza del bar del paese mi prepara il caffè al pistacchio. E' orgogliosa del suo caffè, mi chiede con ansia se mi è piaciuto, si rasserena solo dopo la mia risposta.
I volti di alcuni vecchi seduti con la sedia davanti alla chiesa di un borgo di quattro case, rigati dal tempo, bruciati dal sole. Immobili.
Tre ragazzine in giro per Gangi - c'è il mercato stamani - che hanno saltato la scuola, mi prendono per turista tedesco(!) e urlano a caso wunderbar, schnell, bitte, danke, urlano sguaiate e felici verso il cielo, piroettando i loro zaini.
Ci voleva la pioggia, tanta pioggia per parlare anche di tutto questo.



sabato 11 ottobre 2008

Viaggio in Sicilia 9: Dove volano le aquile




Giovedì 9 ottobre. Oggi è l'ultimo giorno. Alle nove e un quarto sono fuori dell'albergo di Francavilla di Sicilia e comincio la salita, destinazione mare. Ma prima del mare devo arrivare al passo Mandrazzi a 1130 metri slm, e ora sono a 350 metri slm. Il passo è distante sedici chilometri. I monti Peloritani, come del resto anche i Nebrodi e le Madonie, non hanno valichi relativamente bassi. Il sistema per attraversarli è sempre lo stesso: sali, e quando sei in cima vedi che le vette non sono molto più alte del passo.
Il gigante, alle mie spalle, è completamente coperto di nubi, peccato. Lui, l'Etna, è tutta un'altra storia. E' scuro, imponente, ha una base larghissima; sembra fatto da un bambino che si sia divertito a buttare terra su terra, sempre dal centro, creando un cono perfetto. Qui, sui Peloritani, i versanti si intersecano di continuo, e la strada deve scegliere, attraverso improvvisi tornanti, il percorso più dolce. La vegetazione è rigogliosa, e lo strano è che vedi dei castagni inframezzati qua e là da fichi d'India, e anche pini marittimi. La strada continua a salire in modo costante, ma senza forti pendenze. C'è silenzio, non c'è nessuno. O quasi: ecco i cani che rompono le palle, due di media taglia, mi tocca scendere e farmi scudo con la bici. Ovviamente il padrone - che sta insieme alle mucche sulla ripa sopra la strada - mi urla che non fanno niente, di non aver paura, mentre questi qua mi mostrano i denti. Alla fine si mettono ad annusare delle erbette. Rimonto in bici, i tornanti fanno dei disegni contorti, ci sono anche due fiumare completamente in secca che si incrociano con la strada. Ora sono vicino al passo.
Sono a 1050 metri, alzo gli occhi e la vedo. Regale, maestosa, un'aquila che volteggia ancora più in alto del monte. Poi un'altra. Giocano, sfruttando le termiche della montagna risalgono, e poi come un'onda che si frange, ricascano giù, per un po' in sincronia, poi divergono, e si ritrovano. Lo spettacolo dura una decina di minuti. Faccio delle foto. Poi continuo a guardare, a seguirle. Che bello. Spariscono infine, nel versante nord del monte.Arrivo a Portella Mandrazzi, c'è un grande casolare abbandonato, forse un albergo o un rifugio. Comincia la discesa. Qui, nel versante nord, il paesaggio è più orientato verso la vegetazione alpina. Due mucche per strada, una mi vede arrivare veloce e si impaurisce, comincia a correre alla Speedy Gonzales, per fortuna non verso di me. Infine le supero con un po' di cautela.
Dopo otto chilometri dal passo, vedo il mare. Mi commuovo, penso a mio padre, piango. Mio padre in vita diceva che voleva essere sepolto nel cimitero di Milazzo, dove è nato, anche perché da lì si vede il mare. Arrivo a Novara di Sicilia, paesino con casette disposte a terrazza. E' incantevole, perfettamente inserito nel contesto ambientale. Sembra quasi un ornamento del monte, sembra che ci sia sempre stato. Ci sono vie strette da cui si diramano scalinate, e lastricati, e terrazze. Sullo sfondo, il mare di Capo d'Orlando. Continuo a scendere. Altri venti chilometri per il mare. In breve si fanno trenta gradi. Un'altra fiumara, ritorna la vite, gli olivi. Il mare, sulla mia sinistra. A Barcellona, il mare, ce l'ho proprio accanto.Gli ultimi 15 chilometri prima di Milazzo.Sono felice.E a tre, dico tre chilometri dalla fine, la foratura. Della ruota posteriore. Smonto i bagagli, trovo la camera d'aria nuova, eccetera eccetera che mi partono tre quarti d'ora, si sono fatte le cinque e mezzo e devo rinunciare al bagno in mare. Arrivo a casa dopo 526 chilometri, la casa di famiglia, un appartamento in un condominio che abbiamo a Milazzo, ed è una gioia infilare la chiave nella toppa. Domattina andrò al cimitero, stasera a cena dal mio cugino Gianni, che mi verrà a prendere.
In macchina, per piacere.




giovedì 9 ottobre 2008

Viaggio in Sicilia 8: Su e giù, su e giù




Mercoledì 8 ottobre.

Esco dall'albergo alle 9,15 ed è un record, al momento. La preparazione dei bagagli mi porta via tanto tempo, ma con il passare dei giorni sempre meno. Decido di deviare dalla statale per salire su, in cima alla parte vecchia del paese di Troina che ieri sera avevo osservato solo dalla base.

Mi fermo a fare colazione, quando esco c'è un signore anziano che sale lentamente su per la salita con un sacchetto della spesa - pane e latte - in una mano e un bastone nell'altra. Si ferma e mi guarda. Appoggia il sacchetto per terra.

"Bravo, bravo che inchiani 'a salita. Io non ce la fazzu."
"Ma insomma, anche lei non se la passa male, no?"
Fa un cenno di no. Si avvicina a me, accosta la mano alla bocca e parla, a bassa voce.
"Mi tagghiaru u cosu", indica con la mano in mezzo alle gambe.
"Mi spiace tanto"
"Avia 'nu tumori ddà. Mi apriru 'na coscia - nu tagghiu longu longu - e poi mi tagghiaru u cosu a metà. Ora aiu a fari a pipì sedutu, comi i fimmini."
Lo guardo in silenzio.
"Si tenga stritta 'a saluti, mi raccomando." Ha gli occhi lucidi.
Gli stringo la mano. "Le faccio tanti auguri"
"Grazie". Riprende il sacchetto e ricomincia a salire.

Le strade sono di vecchio acciottolato, molto bello a vedersi, un po' meno bello percorrerlo in bici. La parte vecchia ha delle case in pietra calcarea, gialla, e altre di pietra di colori dal rosa, al bianco, al grigio. Gli infissi sono di legno bianco, spesso incrostati e cadenti. ci sono molti terrazzini da cui penzola il bucato ad asciugare; dalla composizione del bucato ti puoi fare un'idea della composizione familiare. Pochi giovani, mi faccio quest'idea.
Arrivo su, ai 1130 metri. Wow. L'Etna, il gigante si sporge ad occupare una buona parte di panorama che vedi da una terrazza pavimentata con vecchi mattoni. C'è un castello normanno, che poi fu trasformato in chiesa, e poi fu restaurato, nel suo interno, in stile barocco. Un arco in pietra con volta a croce connette la chiesa con la parte laterale del castello. Entri in questo arco e vedi dei muri in pietra originali, risalenti al periodo normanno, hanno resistito ai terremoti. Scendi giù e continua la parte vecchia di case in pietra, arroccata su questa altura. Come dicevo ieri: se ti tieni al largo dalla parte nuova, qui c'è da perdersi in tempi remoti con sensazioni di bellezza che ti colgono dietro all'improvviso.
Sono le 10,30, devo ripartire. Una discesa lunga dieci chilometri, sembra di essere sull'otto volante. Arrivo ad una fiumara, sono sceso a 600 metri. ricomincia la salita fino a Cesarò, che si trova a millle. Da qui strada solitaria, sole e campi arati. Come sempre, in questi giorni. Non incontro nessuno, nessuno va a Cesarò. Alcune case abbandonate. Nemmeno un cane(questo per me è un sollievo). I giochi di luce e colore nei campi continuano anche oggi. L'altro giorno mia madre al telefono diceva:"ma quando hai visto un po' di campagna, è tutta uguale, no? Che ci vai a fare fino lì?" Non ho repliche da fare a queste argomentazioni. So solo che qui sto bene. E poi questi rilievi(mi trovo nella catena dei Nebrodi) sono tutti diversi, e la luce, e gli odori. Una campana in lontananza, di Cesarò batte le 12 e 45(fa anche i tre rintocchi dei quarti) e rompe il silenzio. La bellezza è negli occhi di chi guarda, frase logora ed abusata, ne abuso anch'io.
Cesarò è una serie di palazzoni nuovi sparsi a caso sulla collina. Niente di interessante. Comincia un'altra discesa, di dieci chilometri. Una larga fiumara segna l'inizio della provincia di Catania. L'Etna è lì, sembra ad un passo.Da qui, con salita costante ma lieve, sono diretto a Randazzo,un paese che fa parte della Circumetnea. Il paesaggio lavico si fa più scuro e brullo. I muri dei confini sono spesso fatti di pietra lavica, a secco, con un po' di cemento spalmato in cima. Arrivo alle 3 a Randazzo, ho percorso 53 chilometri. Giro nel centro storico, un bellissimo duomo (che ricorda la scuola pisana che alternava pietra serena e alabastro) fatto di pietra chiara alternata a pietra lavica. Altra discesa fino a raggiungere l'Alcantara, un fiume freddissimo ricco, intorno ad esso, di famosissimi percorsi naturalistici. E qui comincia la provincia di Messina , e i monti Peloritani, che affronterò domani. Mi fermo a dormire dopo 76 chilometri nell'insignificante Francavilla di Sicilia, punto di appoggio logistico per gli escursionisti.

Domani vorrei rivedere il mare.







mercoledì 8 ottobre 2008

Viaggio in Sicilia 7: Il gigante


Martedì 7 ottobre.
L'inizio non è stato dei migliori. Ho impiegato un sacco di tempo a preparare i bagagli, e poi, uscendo dall'agriturismo, ho dovuto affrontare una salita ripidissima, forse la più ripida che abbia mai fatto. Trattasi di una stradina fatta di cemento che taglia giù diritta una valle. Tra la strada per Gangi e la bella villa adibita ad agriturismo dove ho dormito ci sono più di 200 metri di dislivello, e una distanza di circa un chilometro. Il proprietario della villa, molto gentile, si era offerto di portarmi gli zaini con la macchina fino alla statale, visto che doveva andare a Gangi, e menomale, ma è stata una faticaccia lo stesso. Insomma, carico gli zaini sull'auto del proprietario e tutto baldanzoso - senza bagagli - affronto la salita in questione. Dopo il primo tratto mi viene la paura di ribaltarmi, mi alzo sui pedali, e sento una fatica incredibile, il respiro forzato mi brucia la gola(la stessa sensazione di quando diciottenne correvo i 5000 metri in pista). Vado avanti per un po', poi scendo e trascino la bici a piedi. Cosa che avrei dovuto fare subito.Con la statale attraverso il paese di Gangi. Mi sembrava più bello da lontano. Abbandono il paese, percorro una discesa e costeggio un fiume. Infine attraverso un ponte, salita, sempre campi arati ai lati di varie fogge, il colore prevalente della terra e molto scuro, un cioccolato fondente, a volte quasi grigio, dove la terr si asciuga sfuma in un beige. Salita. Arrivo alla sommità della collina, nuova valle. Lo vedo, per la prima volta. Lui, il gigante dei 3300 metri, con il pennacchio di fumo in cima. E' emozionante. Da qui in poi - sarò ad un centinaio di chilometri dalla vetta - l'Etna scompare e riappare, gioca, ma sai che c'è, non ti molla. Di giorno, e anche di notte quando c'è attività eruttiva, è un punto di riferimento per mezza isola. Arrivo a Sperlinga un bel paese che ruota intorno ad un castello ed una rupe. Faccio deviazione, arrivo alla base del castello e trovo delle case - ancora abitate - ricavate da delle rientranze della roccia, e in parte, credo, scavate. Mi fermo ad un bar. Ci sono degli anziani e giovani che bevono e urlano e ridono. Parlano un dialetto stranissimo, a me sembra quasi pugliese. Leggo dalla guida che si tratta di "un dialetto gallo-italico con forti componenti di origine longobarda". Il paese, le casette, le strade, è tutto molto bello. Riparto, dopo pochi chilometri raggiungo Nicosia, mi annodo un po' nella viabilità, il paese è sviluppato su quattro colline. Passo dal centro, ci sono qua molte case fatiscenti, molte strade con buche stile Bagdad. Da qui non troverò altro, per trenta chilometri, che case coloniche, campi arati e monti imponenti, e lui, il gigante. Oggi viaggio tra i seicento e i millecinquanta metri. Fa caldo al sole, ci sono 26 gradi. Dopo le quattro si scende sui 17 gradi, e comincia la lunga salita che mi porta a Troina, il paese più alto della Sicilia, a 1130 metri. La parte vecchia è molto bella, anche se in forte degrado. Non riesco, però, a non far caso alla bruttura dei condomini, accozzati con colori improbabili, disomogenei l'uno dall'altro. Ogni architetto fa gli affari suoi. Vorrei vedere il criterio di omogeneità delle signorie e di tutto il rinascimento - non avevano il piano regolatore, solo un criterio di omogeneità, dal quale potevano differire per molti dettagli, ma il contesto era sempre quello - e invece vedo dei condomini addossati a chiese barocche. Eppure qui la natura, il paesaggio, il clima, è stata generosa. Gli amministratori della cosa pubblica no.
Mi sono un po' annodato negli ultimi discorsi, e il gigante, giustamente, sbuffa.
A domani

martedì 7 ottobre 2008

Viaggio in Sicilia 6: I monti




Lunedì 6 ottobre.

La sveglia suona e io mi alzo più tardi, ma già lo sapete questo. Dopo aver sistemato la bici, dopo colazione(posso masticare con attenzione anche a sinistra), sto per partire. Un gatto piccolissimo si è messo accanto alla bici, pare quasi che mi faccia la guardia. E' tenero, ha gli occhi un po' troppo umidi, spero che non sia malato. Parto. Arrivo ad Alia dopo quattro chilometri di salita. Imbocco una strada provinciale che mi farà risparmiare molti chilometri, anche se con più salita. Dopo quattro chilometri un cartello mi annuncia che la strada dal km 9 al chilometro 16 è interrotta. Uffa. Vado avanti. Andrà bene, stavolta. L'interruzione è per una specie di voragine nell'asfalto tutta transennata, che potrebbe essere pericolosa per un'auto. Ragion per cui per ventiquattro chilometri sono solo. Solo. Qualche trattore in lontananza, anche oggi uno stress per due pastori maremmani tenuti senza catena e con il cancello di una casa colonica aperto, che non appena mi vedono passare si mettono all'inseguimento. Fortunatamente ero in discesa. Ma che palle questi cani. Che palle. Comunque. Sono solo. Un silenzio quasi assordante, che ti mette in discussione, non puoi far altro che dialogare con te stesso. Solo gli uccelli. Il mio respiro. Se stai bene con te stesso, va bene, se ti stai sulle palle, in questi casi è un problema. Sono in salita, Arriverò a 1056 metri oggi, un po' più su e giù di ieri, ma bello. Il sole. L'aria che ti accarezza. Passo il crinale di un monte ritrovo un'altra valle. E così via. sempre un'altra valle un po' più in là. Con composizioni e colori di terreno sempre diverse da prima. Bello. Oggi passo Castellana Sicula, riscendo a 550 metri e risalgo a 1030 a Petralia Sottana(e sopra c'è Petralia Soprana). Sono le 16,30, mi occorreranno(da Petralia, ultimo paese prima di Gangi, l'arrivo di oggi) tre quarti d'ora per trovare telefonicamente - grazie Internet, grazie - un agriturismo aperto e disponibile a Gangi, paese - almeno da lontano - bellissimo. Una specie di alveare molto convesso abbarbicato sul suo bel monte.

A domani

Viaggio in Sicilia 5: Imprevisto



Mi sveglio alle tre, il dolore sordo del dente.
Decido di guardare il percorso dell'indomani, intanto lo movo volutamente con la lingua, nella speranza di lussarlo e di toglierlo. Dopo un'ora di "lussazione" il dolore è aumentato. E' domenica notte, mi fa male un dente, sono a 1200 chilometri da casa. Prendo un cacciavite, lo disinfetto approssimativamente, mi metto allo specchio e comincio a lussare davvero il pezzo di dente fratturato. Sento un male bestia. Muovo avanti ed indietro. Dopo una mezz'ora il pezzo è tolto. Ora sto bene. Anche se la finestra in basso a sinistra(per fortuna non si vede granchè, ma mi dà fastidio) mi ricorda sgradevolmente che siamo fatti di pezzi, e possiamo cascare a pezzi. E mi ricorda che dovrò pensare a chiamare il dentista. Spero in un perno-moncone e una corona in ceramica.

Viaggio in Sicilia 4: Terra


Domenica 5 ottobre.
Me la sto prendendo comoda, ieri è stata una giornata faticosa, oggi ho bisogno di alleggerire un po'. Mi metto a scrivere il resoconto di ieri(il post intitolato "cavallo nero"), poi colazione. Passo per Corleone, do un'occhiata. Mi sembra che tutta la vita sociale e relazionale del paese ruoti intorno a "La villa", soprattutto i giardini circostanti ad essa, sono pubblici, affollati da anziani seduti sulle panchine, ragazzi parcheggiati fuori in motorino fuori del cancello, famiglie a passeggio per i vialetti interni. Ci sono delle palme enormi e una bella frescura, Poi belle viuzze intricate, in salita, e scalinate, e panni stesi dalle finestre. Dove vai vai, sbatti contro un monte che circonda Corleone come un anfiteatro, il resto è panorama sulla vallata antistante(Corleone è alto più di 600 metri). Mi fermo al "Central Bar" a fare rifornimento di merendine. L'interno è tappezzato di foto di "Il padrino" un due tre. I turisti arrivano qui soprattutto per respirare l'aria dei film di Coppola, e possono comprare "L'amaro Il padrino", da "un'antica ricetta corleonese". Si è fatto mezzogiorno, intanto.Vado, arrivo alla statale dopo una salita lunga tre chilometri. E continuo a salire, fino agli 800 metri. In tutto il giorno incontrerò due paesi(uno solo da attraversare, per l'altro devi abbandonare la statale e percorrere due chilometri) nessun bar. E terra. Tanta terra, arata, oppure terra verde di prati, e boschi, o la roccia di monti che sbucano dal terreno, non te l'aspetti, quasi fossero funghi appena nati. Dopo ventiquattro chilometri lascio la statale e seguo le indicazioni di un ristorante bar per la strada che porta a Prizzi( a proposito di film...). Chiedo un panino con prosciutto e mozzarella. la ragazza mi porta mezza pagnotta tagliata nel mezzo per la sua lunghezza con ottantacinque chili di prosciutto e mozzarella(un "panino", una coca e un caffè a 4 euro). Mi metto a masticare, ci vorrà un po', penso, ma sono gentili qua. Mastico, mastico, mastico, ad un certo punto sento cronc. penso che ci sia un ossicino, invece è una mia otturazione di un dente che ha deciso di andarsene oggi, un premolare inferiore sinistro . Tocco col dito, la parete interna del dente è mobile, il dente ha una frattura obliqua o verticale. Mi ricordo che il dente è devitalizzato, ma ogni volta che la lingua tocca la parete, muove la gengiva, la stira e sono dolori. Cerco di non toccarlo, finisco il panino con la parte destra e riparto. Si va su e giù, ma poco, è una specie di altopiano tra i seicento e gli ottocento metri. Arrivo a Lercara Friddi, un paese costituito perlopiù da case costruite con blocchetti di cemento senza intonaco, con degli enormi bidoni multicolori posti sulle rispettive terrazze(credo siano approvvigionamenti per l'acqua, l'annoso problema della Sicilia, un problema di amministratori e politica e sprechi e delinquenza). Non c'è nessuno, per la strada, dove sono? Tutti a guardare le partite in tv? Boh. Percorro la statale che mi porterà, dopo altri venti chilometri di pura bellezza, ad Alia, un paesino arrampicato su un monte. Dopo settantuno chilometri mi stendo in una camera di un agiturismo, poi cena - tutta da masticare a destra - e poi nanna.

lunedì 6 ottobre 2008

La sveglia del mattino


Stamani avevo puntato la sveglia alle 6 per scrivere il resoconto di ieri; quando ha suonato l'ho spenta, ho richiuso gli occhi e li ho riaperti alle 7,15. Non mi rimane il tempo per scrivere, visto che oggi mi aspetta una lunga tappa. Spero di poter scrivere due puntate stasera, e una su un imprevisto che mi è capitato ieri.
Buon lunedì(ossimoro), a stasera.

domenica 5 ottobre 2008

Viaggio in Sicilia 3: Un cavallo nero




Se il viaggio è bello, non puoi programmare, prevedere tutto ciò che ti accadrà.


Se avrai tutto sotto controllo, se tutto sarà come avevi previsto, potrai godere del bello che avevi previsto, ma sarà come se lo avessi già vissuto. Potrà apparire una bella routine, ma niente di più.
Bene, posso affermare con certezza che in questo giorno di viaggio non ho corso questo rischio, no. Ma forse qui si esagera.
Passi un cane di piccola taglia a Selinunte che ti vuole azzannare appena partito e tu che pedali come Ridolini a velocità folle, e anche quattro cani bianchi che scendono nella strada di campagna solitaria e ti circondano e ti guardano e per fortuna se ne vanno, passi una pioggia improvvisa e abbondante per fortuna di breve durata, e anche una strada provinciale che esiste sulla cartina Michelin e che dopo cinque chilometri non esiste più, avvisandoti placidamente con un cartello "strada interrotta" (e per questo ho percorso 20 chilometri più del previsto, arrivando al buio a Corleone), ma un cavallo nero senza padrone che ti sbarra la strada stretta al di là di un ponticello, no.
E' troppo.
E' uno di quei sogni inquietanti che racconti che racconti a un amico chiedendone il significato.
Io mi fermo, lui pure. Io ho paura di lui, ha degli zoccoli piuttosto robusti. Non so che fare. Mi metto sul bordo del ponte, non posso saltare. Mi accovaccio. Il cavallo si avvicina, guarda in terra. Probabilmente ha paura - come me - nel vedere un tizio col casco e tenuta da bici rossa e un cavallo di alluminio. Passa qualche minuto, poi si avvicina passando sul lato opposto al mio, io mi tengo la bici come scudo. Faccio una foto.
Passa, se ne va e si ferma alla fine del ponticello ad annusare qualche erbetta. Sospiro di sollievo.
Una voce dalla campagna, lato sinistro del ponte:
"Senta scusi"
Vedo un uomo con la zappa in mano distante un centinaio di metri.
"Sì?"
"Mi potrebbe fermare quel cavallo?"
"No. Ho paura. Mi dispiace. Ma se fa presto lo raggiunge. Ora è fermo."
"Va bene. Non fa niente."
Saluti. Rimonto in bici.
A parte questi imprevisti non proprio piacevoli, ho visto dei panorami bellissimi, in solitudine. Ho viaggiato da Selinunte( purtroppo non ho potuto trattenermi più di tre quarti d'ora nel parco archeologico, soffermandomi solo nel tempio E, imponente e suggestivo e bello) a Corleone tra i 100 e i 700 metri di altitudine, con campagne a volte aspre e brulle, alternate a oliveti e vigneti e campi arati di fresco, passato borghi con quattro, dico quattro case, dove vedi vecchi seduti appoggiati con due mani sul bastone che ti osservano e sorridono e salutano(sulla gentilezza: ho chiesto in un bar sperduto - a Montevago, un nome, una garanzia - l'indicazione per una strada provinciale, lui dice al papà di guardare il bar, prende la macchina e fa un paio di chilometri precedendomi, fino a raggiungere un bivio), monti e tramonti mozzafiato.
Ora sono a Corleone, nel cuore della Sicilia. Sono stato in Sicilia tante volte, mai mi sono fermato nell'interno. Una bellezza più nascosta rispetto alla costa, dove tutto è visibile ed immediato. Devi essere disponibile, accogliente per vedere questa bellezza. Non che io lo sia, ma ci sto provando.
Ciao, a domani.

sabato 4 ottobre 2008

Viaggio in Sicilia 2: A sud di sud


Quando sono sceso all'aeroporto di Trapani, ho avvertito l'aria calda, nonostante le otto e mezzo del mattino e nonostante il tre ottobre.
Qui è diverso. C'è il terreno secco. Ci sono i banani e i fichi d'india.
Mi trovo a mille chilometri a sud da casa mia, e mi sto dirigendo a sud. A sud di sud, se è lecito dirlo.
Sono sceso dall'aereo, ho atteso il mio megaborsone, e poi mi sono messo fuori dall'aeroporto a montare la bici.
Si sono fatte le undici, per colpa del fermo - un tondino cavo che deve scattare e bloccarsi sul portapacchi della bicicletta - di una borsa che si staccava di continuo. Poi, uscendo dall'aeroporto, non ho visto la sbarra del parcheggio delle auto - stavo guardando la cartina - e ci sono sbattuto contro. Mi sono procurato qualche escoriazione al braccio e gamba sinistra, niente di grave. Ma, insomma, come inizio non c'è male. C'è il sole, ci sono quasi trenta gradi. Case bianche, qui in campagna, senza tetto, solo la copertura a terrazza, magari anche i tondini di acciaio che sporgono, non si sa mai se un domani facciamo anche il piano per la figlia che si marita. Strada stretta, qualche camionista maleducato che ti strombazza. Il mare, la laguna prima di Mazara del Vallo, le Egadi al largo. Striscie di mare, terra, mare che ti ci confondi, che non sai se è isola o terraferma, se è mare o lago. Il naufragar m'è dolce.
Poi Mazara, con le viuzze, il lastricato, le case gialle di pietra calcarea, il mare e il cielo, ti confondono anche quelli. La foto che ho scattato oggi(tre ottobre) che sta in cima a questo post parla di case, di varie sfumature di giallo, e di un cielo blu, come quello di Rino Gaetano. Quelle case, e magari anche le persone che stanno a sedere sulla soglia a parlare di niente, per ore, è il mio sud. E'anche tanto altro: è mio padre nel cimitero a Milazzo - dove spero di arrivare in bici tra una settimana -, è il terrazzo di casa di mia nonna, da dove si sentono le cicale, è lo stretto di Messina e la madonnina all'imbocco dell'approdo siciliano, e la scritta - "Vos et ipsam civitatem benedicimus" - che sta sotto la statua. Un messaggio di benvenuto, anche quello è il mio sud.
Un piatto di orecchiette con frutti di mare a otto euro sul lungomare di Mazara, e poi via verso Selinunte. Vado in albergo, faccio una doccia velocissima per andare a visitare il parco archeologico, arrivo."E' qui l'ingresso?""Sì ma la biglietteria è già chiusa.""Non doveva chiudere alle sei(sono le 17,45)?""La sovrintendenza ha stabilito il nuovo orario dal primo ottobre. A lei chi gliel'ha detto?"
"Il sito della sovrintendenza"
"Ah. Allora non è stato aggiornato. Mi spiace."
"Secondo lei a me no? Ho fatto mille chilometri in aereo, e settanta in bici per venire qui."
"Venga domattina. Alle nove."
Caxxo. Domani vorrei raggiungere Corleone, dovrò partire dopo le dieci. Faccio visita all'oasi ecologica(pineta e macchia mediterranea, e dune) che si affaccia sul mare, poi cena (un piatto di linguine con uova di tonno da favola) e a letto. E poi a scrivere queste cose qua. Una bella giornata. Anche perchè so che a Lucca è piovuto tutto il giorno.



Viaggio in Sicilia 1: Partenza

Quando avevo quattordici anni ho iniziato a correre a piedi.
Correvo anche negli anni precedenti, ma a quell'età ho deciso di farlo regolarmente. Praticamente tutti i giorni.
Correvo, da solo. Preferivo correre da solo, non era un ripiego.
Penso, genericamente parlando, che condividere esperienze con altre persone sia una gran bella cosa; con la donna che ami, con i figli, con gli amici. Suonare, per esempio, con altre persone: ecco, la quantità di piacere che sento quando suono con altre persone è infinitamente superiore ai momenti in cui suono da solo. Ma per quanto riguarda la corsa non è stato così, sto meglio da solo. Anche se a quattordici anni correre due ore da solo può essere a volte difficile. C'erano giorni in cui rimandavo l'allenamento alla sera, e correvo per strada(meno male che a Piombino, in città, ci sono lampioni dappertutto, in ogni via). Dovevo passare anche davanti al cimitero, davanti a quel cancello da dove vedevo lumini votivi, anche se cercavo di non guardarli, e mi inquietavo. Oppure i cani sciolti, senza guinzaglio: da soli fanno più paura che in compagnia. Ma a parte questi dettagli, trovavo - e trovo - che sia molto più bello correre da soli. La mente se ne va per conto suo. Mi ricordo di un giorno - una sera d'inverno, al buio - in cui ho corso per un'ora, sono arrivato a casa e non mi ricordavo le strade che avevo percorso, mi ricordavo solo i processi mentali, i pensieri, le mie gioie e le mie preoccupazioni, ma niente di quel che riguarda la strada.
Niente. Le mie gambe avevano corso da sole, non me ne ero dovuto preoccupare.
Ero felice.
E per circa dieci anni ho corso, ho corso, ho corso.
Quando avevo quarantaquattro anni ho iniziato a viaggiare in bici.
Da solo.
La prima volta in Corsica. Poi Sardegna, Provenza, Santiago di Compostela, Irlanda, Creta, Elba (in realtà ci sono tre felici eccezioni alla "solitudine": sono andato con un amico in Sardegna, lo stesso per l'Elba, mentre sul Camino di Santiago mi sono aggregato a tre ciclisti, poi diventati amici). Dopo, quando torno, sto meglio. Con me stesso e con gli altri.
Per chi sa, psicologicamente parlando, cosa sia un enneatipo, io sono del tipo nove, il "mediatore". Un tipo che evita i conflitti, cerca di comprendere le esigenze dell'altro. E' molto empatico - non sto parlando di me, ma di ciò che dicono del tipo nove -, è benvoluto. E' così proteso nel comprendere le esigenze altrui, però, che rischia di dimenticare, accantonare le proprie. In situazioni estreme - quando le esigenze altrui sono profondamente diverse da quelle degli altri - per evitare conflitti si "disconnette" da sè stesso, dal proprio centro, dalla propria essenza. Se ci sono problemi del genere, oltre ad un valido sostegno psicologico, dicono che al tipo 9 faccia bene stare da solo, per qualche giorno, per "riconnettersi", per ritrovare le peculiarità che fanno di ogni persona un essere diverso da tutti gli altri.
Non so se questo sia il motivo per cui mi senta bene in esperienze solitarie, fatto sta che mi fanno sentire molto meglio.
Così come a quattordici anni.
E ora - oggi - mi trovo in Sicilia. Volevo scrivere, e condividere con qualcuno quello che sento. Anche se sento la fatica di oggi -, stanotte scrivo, e per l'occasione ho aperto questo blog.
Sono partito.