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lunedì 24 ottobre 2011

El camino del Norte 9: il punto di arrivo



Sabato due luglio 2011, ore sette. 
Oggi gran parte delle cose che faccio sono definitive. Mettono un punto alla storia. L'ultima volta, di questo viaggio, che monto i bagagli sulla bici, che faccio una colazione abbondante, che mi trovo in queste strade abbigliato in modo bizzarro, e così via. Perfino i gesti routinari, come quello di cambiare riquadro della cartina piazzata sulla borsa davanti al manubrio, assumono un carattere solenne, che si aggiugono alla solennità di un arrivo, al raggiungimento di un obiettivo. 
Mi accoglie, in strada, una nebbia feroce, una di quelle nebbie che non ti fanno pensare a nient'altro che al metro successivo da percorrere, e che ti fanno rimandare la contemplazione del panorama al momento in cui il sole avrà la meglio. Controllo più volte il fanalino posteriore - è vitale - e mi metto la giacca a vento arancione, la più sgargiante che ho. Per fortuna è deserto tutto intorno. Baamonde è un villaggetto immerso in un bosco, uno dei tanti, della Galizia. A fronte di questa mancanza di visibilità, di questo silenzio ovattato dall'umidità, i miei pensieri prendono percorsi tortuosi, di quelli che arrivano al lunedì, che si soffermano su come sarà diversa la mia giornata, inzuppata di lavoro, orari, famiglia. Tutto ciò che sto vivendo adesso, che in questo preciso istante assume un'importanza vitale - le ruote gonfie, gli zaini ben legati, la catena ben oliata, la soluzione salina, l'acqua in borraccia - si ridurrà ad una parentesi, sempre più insignificante via via che trascorreranno i giorni a casa, avidi di priorità del tutto diverse.
Dopo un paio d'ore in solitudine, ecco il sole, improvviso, senza una soluzione di continuo. I boschi assumono un aspetto più rassicurante, sembra quasi che gli alberi della foresta oscura di qualche minuto prima se ne siano andati  in un posto lontano, in barba alle loro inamovibili radici.
Attraverso, di tanto in tanto, piccoli villaggi di cui mi resta solo il nome: Gutiriz, Teixeiro, Correidoiras, Torneiros. La strada, costantemente in altopiano sui 400 metri con continui salisccendi, lambisce case isolate vicine a pascoli. In una di queste c'è una bambina bionda con in mano un pupazzo, seduta sulla soglia di ingresso, che mi scruta mentre passo. Lei ha i boschi e la pace, ma non ha relazioni con altri bambini. Quanto tempo passa su quello scalino? Che farà d'inverno con il maltempo e la notte precoce? Quanti chilometri dovrà percorrere ogni giorno con il pulmino per raggiungere la scuola? Se ne andrà un giorno o rimarrà ringraziando il giorno in cui è nata qui?
Ecco Arzua. Qui mi ricongiungo al cammino ufficiale che ho percorso nel 2007 , e tutto cambia.  Pellegrini a piedi, in bici, a tratti è un brulichio frenetico. Si respira aria di Santiago, a soli 40 chilometri da qui, anche se chi va a piedi potrrà arrivare a Santiago solo dopodomani, o nella più rosea delle previsioni domani sera. L'aria qui è calda, qualche pellegrino a torso nudo, alcuni con fasciature ad un ginocchio, altri con passo incerto. Altri venti chilometri, quasi due ore con una sosta a base di cocacola e bocadillos, e raggiungo la periferia di Santiago, la zona dell'aeroporto. Qui c'è un flusso biblico di persone. E' un continuo scambio di "Buen camino" e "Ugualmente", esattamente come quattro anni fa. 
Via via che ci si avvicina, si avverte un gradiente di concentrazione in crescendo di emozione, attesa, stanchezza. Il monte Gozo è l'ultima asperità consistente, con degli strappi che arrivano al venti per cento su sterrato. Le antenne della televisione, un bizzarro piedestallo trapezoidale che sormonta una croce, una recinzione metallica tappezzata di centinaia di croci fatte di aghi di pino, sono dei flash che preludono alla vista sulla città. Sì, si vede anche la cattedrale. Discesa a capofitto, di tanto in tanto si avvertono urla di pellegrini festanti in odore di arrivo. Una viabilità trafficata a cui non ero più abituato, pellegrini dappertutto, suonatori, saltimbanchi, funamboli nelle piazze del centro storico.
Eccola. La cattedrale.
Scene di giubilo, zaini e biciclette sparsi in ogni angolo. La gioia dell'arrivo. Devo assaporare ogni espressione di chi mi sta intorno, concentrarmi sui suoni, e contemporaneamente su me stesso.
Rimango qualche minuto sdraiato supino nella piazza, ogni cosa mi dà gioia: l'azzurro, le urla degli arrivi, una chitarra, la campana delle cinque e mezzo. 
Mi rialzo, vado a farmi timbrare la credencial, a ritirare la Compostela. C'è una fila ordinata lungo le scale di un austero palazzo, dopo una  ventina di minuti mi viene consegnata la pergamena. Alle sei entro in cattedrale per la messa; la composizione dei pellegrini richiama al mondo intero, di ogni razza e pelle e religione. Nonostante siano molti anni che non frequento più una chiesa, decido di partecipare alla comunione, e mentre sto inginocchiato mi prende una commozione che mi fa traboccare gli occhi, sebbene chiusi, di lacrime.
E qui c'è il punto. 
La fine di un viaggio che divide un prima da un poi, e con essa la fine di questa storia che mi pone un interrogativo. Che cosa racconterò domani? Avrò ancora qualcosa da raccontare, qualcosa di significativo degno di essere scritto e letto, a chi passa di qui?
Buen camino.
Buen camino a tutti voi
Buen camino, davvero.



domenica 16 ottobre 2011

El camino del Norte 8: come l'autobus al volo




Oggi, primo luglio 2011, mi sono alzato alle sei e venticinque. Il fatto è che ieri sera, mentre aspettavo la mia zuppa di pesce, stavo guardando con un po' di disagio la strada ancora da percorrere, ed ero giunto alla conclusione che se non avessi forzato la mano sul chilometraggio odierno, non sarei giunto per domani, il due di luglio, a Santiago. E così ho programmato un tappone da centocinquanta chilometri infarcito di continui saliscendi, una decisione che ricorda quella presa da Fantozzi che vuole rimediare al tempo perso per un imprevisto mattutino manifestando l'intenzione di prendere l'autobus al volo.
Il padrone dell'albergo mi accompagna al garage dove tenevo la bici, il tempo di caricare i mei simpatici venti chili di bagaglio, e alle sette sono già in partenza. Luarca, cittadina godereccia affacciata su un porticciolo variopinto, è ancora silenziosa ed impastata di sonno, così come il suo mare.
La N-634 costeggia nel primo tratto l'oceano, che appare e scompare di continuo, quasi giocasse a nascondino. C'è un vento fresco, sole, e il nastro di asfalto che si srotola sotto la bici. 
Ogni tanto, quando provo sensazioni di viaggio nettamente positive, mi dimentico di essere un'accozzaglia di cellule e penso di essere solo movimento, inconsapevole del mio respiro, delle gambe che stanno pedalando, del mio sguardo costantemente fisso sulla strada. Mi capita più frequentemente la mattina presto, col silenzio, le ombre lunghe, e quando mi capita avverto gratitudine nei confronti del mondo intero. Proprio come ora.
La strada raggiunge Castropol, l'estrema propaggine della Cantabria, e piega verso sud costeggiando il fiume Ribambo. Decido di piegare a sud per evitare l'attraversamento del fiume dal ponte per Ribadeo, un ponte estremamente trafficato, imponente, che si vede da decine di chilometri di distanza. A Castropol scendo per una stradina che mi dà indicazioni per la oficina de turismo, dove chiedo una cartina e mi faccio timbrare con il sello la mia credencial. L'oficina si affaccia sull'enorme estuario del Ribambo. C'è bassa marea, e dei bambini lanciano sassi nell'acqua. Complice la fanghiglia e le alghe, i sassi affondano lentamente, e questo non lascia dubbi ai bambini su chi abbia tirato il sasso più lontano. 
Mi spingo a sud, dicevo. Questo è il primo netto cambiamento di direzione del mio viaggio, ed inoltre abbandono l'oceano. 
Quasi a voler sottolineare questo allontanamento, cala improvvisamente il vento. Percorro la riva del fiume fino a Vegadeo, dove c'è l'altra opportunità di attraversamento con un ponte più dimesso e sgangherato. Ora sono in Galizia. 
Da qui, prendo una stradina solitaria: questa attraversa la gobba di un alto che congiunge la valle dove mi trovo con quella in cui si dipana la Nacional 634. Raggiungo con una salita pedalabile a pendenza costante il punto più alto a 450 metri, e c'è una chiesetta immersa nel bosco. Da un palo vicino due fili zeppi di bandierine raggiungono le estremità del tetto della chiesa. Forse un  passato matrimonio, forse la festa di un santo. 
Discesa a capofitto, e raggiungo, all'altezza di Lourenzà, l'altra valle e la N-634. Prima di Mondonedo la strada ricomincia a salire. Sale costantemente, con un traffico imponente. Troppo traffico, ci sono anche molti camiones. La strada sale costantemente con pendenze medie del 10 per cento. Questo è uno dei tratti più brutti che mi tocca fare. 
Mi prende anche un po' di paura. 
Nessun camion o auto mi passa particolarmente vicino, per fortuna, anche se il rombo dei motori e l'emissione dei gas di scarico in salita è insopportabile, ma la paura dipende dalla possibilità che mi possa distrarre per un attimo e deviare verso il centro strada, dal fatto che i miei nervi mollino, che le mie mani non reggano più saldamente il manubrio. Raggiungo l'Alto do fiouco, a quasi settecento metri, dove sulla sinistra vedo un imponente parco eolico, con  annesso il sordo rumore delle pale. Poi discesa con altrettanta paura, sempre per il traffico, per fortuna più breve in quanto più veloce. 
In questi tratti, invece, mi domando perché mi sia imbattuto in rischi del genere. 
Il voler finire l'intero tragitto in una settimana è una delle possibili risposte, che non mi ha dato l'opportunità, oggi, di seguire stradine più tranquille, dove passa l'itinerario ufficiale del camino del Norte. 
In altre occasioni, nei miei viaggi, ho preferito, come adesso, cercare di percorrere lunghi chilometraggi per nutrirmi di più panorami possibili, a discapito di un percorso più cadenzato e intervallato da maggiori esperienze di relazioni umane. Insomma, a posteriori penso che questo tratto di nacional lo avrei dovuto evitare.
Per fortuna, come dopo un brutto sogno, la strada addolcisce e il traffico cala bruscamente. Sono le sei, in altre tre ore e mezzo raggiungo prima Villalba, poi Baamonde. Baamonde è un paesino minuscolo, con un crocevia, quattro case, una chiesa. Ho il rammarico di non aver dormito al  bellissimo albergue del peregrino, qui - mi dice il gestore che mi saluta in strada - mi avrebbero accolto anche se sono quasi le dieci. Invece avevo già prenotato telefonicamente in un albergo a ridosso di una stazione di servizio, una specie di autogrill. Ma, tutto sommato, non mi va male: la signora, che gestisce anche il ristorante, è molto gentile, e il suo baccalà alla galiziana è fantastico, e la camera piccola ma pulita ed accogliente.  Il tutto immerso in una Galizia di bosco, una Galizia fiera del suo incomprensibile dialetto, delle sue tradizioni, delle sue musiche. Una Galizia inzuppata da frequenti piogge, invasa da peregrinos che vogliono raggiungere Santiago. Oggi ho preso l'autobus al volo, e la possibilità di raggiungere domani la cattedrale di Santiago diventa più concreta.
Buen Camino




domenica 9 ottobre 2011

Undici

Undici


Quell'anno, il 1971, la Pasqua sarebbe caduta l'undici di aprile. Lo sapevamo bene, a scuola: una settimana di vacanza, a partire dal giovedì precedente, l'otto. Lo sapevamo bene, a dottrina: ci stavamo preparando alla prima comunione. E la domenica delle Palme, dopo la messa, l'annuncio di Suor Franca: Giorgio, Stefano, Franco, Marco, e altri otto nomi compreso il mio. Riserva: Marcello. I dodici apostoli - più la riserva che sarebbe stata in panchina, ovvero seduto nella panca della chiesa atto a rimpiazzare eventuali indisposizioni - avrebbero partecipato alla lavanda dei piedi nel pomeriggio di giovedì santo, alle ore 17. "E' importante" disse Suor Franca "e venite con i piedi lavati, la lavanda che vi farà Don Ivo è simbolica."
Il giovedì seguente, dopo la campanella, il portone della scuola si spalancò vomitando ragazzini chiassosi e festanti. Pareva una prova generale di ciò che sarebbe accaduto l'ultimo giorno di scuola. Per i compiti, se ne sarebbe parlato il martedì seguente, sempre l'ultimo giorno utile. Era aria di festa. Si formò un capannello di ragazzini gioiosi per fissare il ritrovo pomeridiano. "Al campo degli ulivi alle tre". Il campo degli ulivi era adibito a campo di calcio, anche se si doveva evitare un paio di alberini a centrocampo, e la partita sarebbe stata:"Quinta D contro quinta F".
Io ero nella D, e non ero dei più dotati per il calcio; fin da quei giorni mi ero accorto di avere una resistenza alla fatica superiore a quella dei miei coetanei, e quindi potevo dire la mia in bici e nella corsa prolungata, ma non avevo la grinta di buttarmi in un contrasto di gioco, di tirare di testa, di calciare una punizione efficace, insomma ero - per la nostra rudimentale concezione di gioco del calcio - uno di quelli da difesa, come se fosse buona cosa piazzare gli scarsi a incassare gol, o meglio ancora ero da panchina.
Quel pomeriggio si presentò un gran numero di ragazzini al campo, compresi alcuni spettatori di altre sezioni, tanto da garantire una partita con numero regolamentare, e noi della D eravamo in dodici. Io mi tirai fuori subito, prima che me lo dicesse qualcun altro. Del resto sarei dovuto andare alla lavanda dei piedi.
La partita cominciò, e io mi stesi sul prato insieme con Pasquale, il mio amico della F, anche lui fuori dai giochi. Avevo tre quarti d'ora prima di avviarmi verso la chiesa. Mentre parlavamo io e Pasquale, il nugolo di giocatori che inseguiva come uno sciame la sfera magica(gli schemi erano completamente saltati al secondo minuto di gioco) di tanto in tanto esultava per metà e imprecava per l'altra metà, raggiungendo rapidamente il punteggio di due a due. Alla mezz'ora Alessandro Marchettini stava per entrare in area avversaria palla al piede, quando venne sgambettato. Alessandro volò, grattugiando il ginocchio sul terreno sconnesso. Pianti, sangue, Alessandro non se la sentiva più di proseguire, si avviò zoppicante verso casa, inoltre rigore non concesso perché quelli della F se la cavavano bene con i discorsi. Sconcerto nelle file della D. Gli occhi puntati verso me. "No, ragazzi, devo andare alla lavanda, alla messa." "E dai." "No" "Dai." Anche quelli della F insistevano. Alla fine mi trascinarono in campo con la promessa di finire la partita al più presto, ovvero nel momento in cui una delle due squadre avesse segnato. In fondo quattro gol in mezz'ora...un altro gol entro un quarto d'ora sarebbe stato estremamente probabile. Che non arrivò."Ragazzi, devo andare..."
"Non ti ci provare" mi disse Stefano, che era il doppio di me."Al gol finiamo."
Stefano aveva quel modo di fare estremamente convincente, e rimasi. La partita di calcio si trasformò nello stallo di una partita di scacchi, le porte erano incantate, una specie di campi elettromagnetici che respingevano qualsiasi cosa potesse assomigliare ad una sfera. "Che ore sono?" chiesi a Pasquale a bordo campo. "Le cinque e cinque."
"Non è che ci potresti andare tu?" "Ma sei matto?" "E poi io la comunione la faccio il prossimo anno." Avvertii un senso di profonda inquietudine, cercai di consolarmi  pensando a Marcello, la riserva, e poi ormai non avevo nemmeno i piedi puliti, ed ero un bagno di sudore. Come se tutti gli altri lo facessero apposta, la partita si  prolungava senza il gol. Ormai erano le cinque e mezzo, stavo in difesa cercando di fronteggiare il Poli che si preparava ad un tiro da fuori area, ma scivolò in modo ridicolo. Non mi restava che prendere la palla; arrivai in prossimità degli alberi a centrocampo, e da dietro di uno di essi, cercai di fare una specie di cross in area. Presi la palla di collo pieno, e invece di raggiungere i miei compagni appostati, la sfera si diresse in modo maligno verso la porta, insaccandosi dietro il portiere incredulo. Il sospirato golden goal, partito da un mio tiro a banana. Il mondo si era fermato, bisognava che riscrivesse in fretta un copione imprevisto.
Dopo due tre secondi di silenzio assoluto, tutti corsero verso di me, mi abbracciarono, ero l'eroe del giorno. Non avevamo mai vinto contro la F, e così i miei compagni fecero una colletta e mi offrirono una spuma bionda al Bar Stella. Risate, scherzi, commenti del dopo partita. Ci salutammo alle sei e mezzo.
La mia mamma mi aspettava sull'uscio. "Suor Franca ha telefonato tre volte, dove sei stato?"
"Io...ma Marcello non c'era?"
"La suora ha telefonato tre volte." Ebbi paura, la mia dolce mamma era paonazza e con gli occhi spiritati. Cominciai a piangere come una fontana, farfugliando vigliaccamente qualcosa sul fatto che non mi avevano lasciato andare, ma senza grande convinzione.
"Ora vai dalla suora."
"Cosa?"
"Vai. Glielo dici tu quello che hai fatto."
Avrei preferito che mia madre mi picchiasse a sangue, ma non mi sfiorò nemmeno.
Erano le sette e mezzo, era già buio, e con i passi pesanti raggiunsi il convento.
Suonai, la mano tremava come il campanello.
Il portone si aprì, chiesi di Suor Franca.
Arrivò a passi svelti e mi urlò contro. "Non è mai successo! Undici! Undici apostoli con don Ivo! Che vergogna!"
"Ma Marcello..." replicai singhiozzante.
"Marcello non c'era! E tu, tu...tu c'eri! Sì, c'eri anche tu! Eri Giuda!"
"Io...mi dispiace, io pensavo che Marc..."
"E finiscila con Marcello! Marcello non c'era! Ma tu avevi preso un impegno solenne! Dove sei stato?"
"Io...non mi hanno fatto andare via, la partita, non finiva più, io mi dispiace tanto, io..."
Non riuscii più a parlare dai singhiozzi. La suora si avvicinò a me e mi avvolse con le sue braccia corpulente. Mi persi con la testa tra le pieghe dei suoi drappi neri e sentii un gran calore. Continuai a mugolare e singhiozzare per un po', pian piano mi calmai.
Doveva essere stata una giornata dura per lei, pensai.
"Non importa", mi disse. Mi tenne abbracciato, stretto per qualche minuto. In silenzio, all'imbrunire.
 

giovedì 6 ottobre 2011

Le mie foto di eroica 2011









Dopo 205 chilometri di stanchezza, fame, sete, sonno, freddo, caldo, gioia, felicità, lascio il posto solo a qualche immagine. Le parole sono inadeguate. Grazie eroica