Pagine

mercoledì 24 marzo 2010

Mont Ventoux: l'inizio di un viaggio





































E' il nove agosto 2006, mi trovo in un treno e sto guardando il paesaggio che sfreccia oltre il vetro.
Fino all'ultimo momento non ero sicuro di fare questa vacanza.
Sarebbe dovuto venire mio nipote insieme con me, ma ha dato forfait due giorni prima della partenza: è in crisi perchè la sua ragazza l'ha mollato; poi sono venuti dei dubbi anche a me, relativi all'opportunità di fare questa vacanza da solo.
A Nizza il treno arriva con molta calma, perdo la coincidenza e telefono all'albergo di Avignone per avvertire del gran ritardo; loro mi rispondono - dei gran signori, non c'è che dire - che non mi possono tenere la camera che avevo prenotato. Telefono all'ufficio del turismo di Avignone, e dopo alcuni tentativi trovo un'altro hotel vicino alla stazione. Arrivo ad Avignone alle dieci di sera invece che alle sette, con la sacca portabici appresso - un coso nero enorme che non entrava nello scompartimento e destava la curiosità degli altri passeggeri - e tre borse. Telefono a mia moglie, è estremamente agitata e non si sente bene, tanto che non so se domattina sarà meglio tornare a casa. Passo la notte insonne. Stamani è tranquilla, l'indisposizione era stata una nube passeggera, e così alle dieci e mezzo del mattino del mattino finisco di montare la bici e gli zaini sulla bici, e mi dirigo verso il Mont Ventoux, la vacanza in Provenza ha inizio.
Anche se i dubbi non si sono ancora dissolti del tutto.
L'uscita dalla città di Avignone non è dei migliori auspici: non ho alternative alla strada D942, non è altro che una superstrada a quattro corsie. Per fortuna c'è una striscia di asfalto - non la chiamerei corsia di emergenza, si monterebbe la testa - che mi permette di non sentire gli specchietti laterali destri delle auto in assetto da gran premio sul mio orecchio sinistro. Questa storia continua per venti chilometri fino a Monteux, dove esco e trovo una strada più umana. Mi fermo per un caffè, un succo di frutta, e un'occhiata alla cartina. La giornata è serena, ma tira vento(comincio a capire il significato oscuro di un paio di indicazioni che avevo notato: Hotel Mistral, avenue du mistral), un vento fresco.
Una volta attraversata Carpentras, la strada si fa leggermente più tortuosa e comincia a salire, ma poco. Il paesaggio è collinare - ricorda un po' la parte interna della Toscana - con vigneti ed olivi, costellati di cipressi, qualche casa colonica con l'edera sul muro. All'orizzonte vedo per la prima volta la cima del mont Ventoux: è bianca, e da questa distanza potrebbe essere scambiata per neve, ma il calore del sole mi riporta prontamente alla realtà dell'estate.
Altre due ore di bicicletta su strada costantemente fotogenica, poi la strada si fa un pochino più ripida prima di arrivare alla base del monte. Ho percorso quarantanove chilometri, sono le due, e mi trovo a Malaucene, un paesino a 340 metri sul livello del mare. Faccio un giretto dentro il centro storico del paese, munito di porta medievale e viuzze in saliscendi, con case colorate come in un quadro naif. Mi fermo per mangiare un panino - si fa per dire, una baguette lunga mezzo metro con jambon e fromage - che non riesco a finire, l'avanzo lo metto nello zaino, così come un succo di frutta e due borracce d'acqua, e riparto. Sono le tre.
Il paesaggio ben presto si trasforma da collinare a montano, con pini, abeti, faggi e larici. Un cartello turistico mi ricorda che mancano ventun chilometri alla sommità, alta 1909 metri slm. Il primo tratto di salita non è arduo ma, tanto per vedere la bottiglia mezza vuota, una pendenza inferiore alla pendenza media dell'intero percorso (7,5%) è una specie di cambiale che si deve pagare prima della cima. Cerco di concentrarmi sul presente, sulla singola pedalata, sul panorama che la montagna mi offre istante per istante.
Mi solleva pensare che Francesco Petrarca nel 1336 sia passato di qui, a piedi. Insomma, forse non è una questione meramente sportiva venire da queste parti. Forse pensava a Donna Laura. Qui il pensiero diventa selettivo, si sofferma sull'essenza, su ciò che ritieni importante nella vita, non c'è spazio per le cianfrusaglie. C'è un silenzio quasi imbarazzante, almeno all'inizio, lo chiamerei un silenzio antico, modificato di poco nel corso del tempo. Poi pian piano mi abituo, anzi, mi lascio cullare da questa totale assenza di suoni, a parte l'affanno del mio respiro. Il silenzio si arricchisce di solitudine, ormai Malaucene è un ricordo di viaggio, il prossimo centro abitato è distante più di trenta chilometri. Il viaggio procede con gran lentezza, sono le cinque, ho percorso solo dieci chilometri e mi trovo a mille metri di altezza.
Mi fermo, e guardo il panorama che si apre alla mia sinistra, verso nord: intravedo tre dorsali di catene montuose abbastanza lontane, che si perdono quasi all'orizzonte, quasi nel mezzo della Francia e boschi, boschi, boschi. Telefono a Sault per avvertire l'albergo che arriverò molto tardi, menomale che questi non fanno storie. Rimonto in bici, la pedalata di avvio è piuttosto dura. Una pietra miliare mi informa che il prossimo chilometro avrà una pendenza media del 10,5%. Dopo un paio di tornanti la strada, in effetti, si irripidisce di colpo. Il mio affanno aumenta, le gambe non girano.
Mi fermo di nuovo. Bevo il succo di frutta, bevo l'acqua. Dopo qualche minuto riparto. Comincio a fare quelle stupide serpentine che ti attenuano la pendenza, ma che ti raddoppiano la lunghezza del percorso.
Mi fermo ancora. Decido che ripartirò quando le pulsazioni cardiache saranno scese sotto le cento al minuto. Mi metto supino a guardare il cielo, steso tra i sassi del ciglio della strada. Passa una macchina, si ferma, e una signora mi chiede se ho bisogno di aiuto. Faccio dei rassicuranti cenni di no - non so il francese, e non ho la lucidità necessaria per organizzare una risposta in inglese, ammesso che la signora lo capisca - e sfoggio un sorriso a trentadue denti, la macchina riparte.
Mi metto a fare qualche foto, altri cinque minuti e sono a 100 pulsazioni, riparto.
La fatica non mi abbandona, ma perlomeno mi muovo, ce la faccio a muovermi.
Perché non giro la bici e torno a Malaucene?
Non me la sento.
Che devo dimostrare?
Che ce la posso fare.
A fare cosa?
A farcela.
A fare cosa, prego?
A farcela.
No, questa non è una risposta. E' come quando fai notare ad una persona un difetto, o qualcosa che non va, e ti risponde: "Io sono fatto così".
La pietra miliare successiva intanto mi conforta con un 8%.
Devo dimostrare che ce la posso fare a percorrere questa salita.
E poi?
Niente. La salita, la strada è un concetto etereo, specie quando non la condividi. "La strada insieme" suona meglio. "Ha fatto tanta strada", è un concetto troppo individualista, e inoltre non ha fatto niente, non è che abbia costruito una strada con massicciata e asfalto e vernice; e come metafora è francamente un po' logora. La sto facendo troppo pallosa, in fondo è una salita, nient'altro.
Se mi fermerò ancora, se non ce la farò, potrò tornare a Malaucene, girerò la bici e farò la discesa, un'allegra discesa. Bisogna però avere il coraggio di non farcela.
Oppure potrei raccontare che ce l'ho fatta, tanto chi mi vede? Non vedo nessuno, non parlo con nessuno, nessuno mi vede e mi sente. Non esisto. Solo alberi, e il vento che ogni tanto mi parla. Vorrei fare una cosa al di sopra delle mie possibilità. "...Penso a delusioni, a grandi imprese, a una tailandeeese ma l'impresa eccezionale, dammi retta è essere normale...". Normale, sì. Pensai a questa canzone anche molti anni fa, a Bologna, "... gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino..." e io ce la feci a perdermi, caro Lucio. Anche in quel caso volevo compiere un'impresa eccezionale. Vedevo già il titolo sul giornale: "Si perde a Bologna, e non è di Berlino."
Altro chilometro, intanto. Il pensiero delirante in qualche modo mi aiuta a sentire meno la fatica.
Mi aspettano altri due chilometri al 10%. Mi fermo e finisco di mangiare il panino, acqua.
Finita l'acqua.
Sono al quattordicesimo chilometro, sono le sei. Il mio contachilometri sulla bici, a tratti segna 0, perchè sotto i cinque chilometri all'ora non si sforza di dirti la velocità istantanea. Forse non vuole farti rimanere male, forse il mio contachilometri ha una grande sensibilità. E' come se mi parlasse con un gran tatto e mi dicesse: "Senti, non te lo vorrei proprio dire, ma... stai andando a 4,2 chilometri l'ora, meglio che non lo scriva. Amici come prima?" La salita si addolcisce un po', e riesco a guardare anche il panorama. Solo abeti, poi si apre una radura. C'è uno spiazzo erboso, e dopo la curva c'è un bar ristorante con dei tavolini fuori.
Non mi sembra vero.
Entro e chiedo due succhi d'arancia, una bottigliona d'acqua. Mi siedo ad un tavolino fuori in un deserto di vento, tipo nel film "Bagdad Cafè", non so da dove cominciare, poi mi aggrappo al succo, che finisco in un fiat. Poi mi aggrappo al secondo succo, vedi sopra. Poi bevo un po' d'acqua e col resto riempio le borracce.
Intanto arriva un tipo in bici dall'alto, un deus ex machina che si ferma e mi saluta. Parliamo in inglese, mi dice che viene proprio da lassù, e sta tornando a Malaucene, mi assicura che gli ultimi cinque chilometri non sono terribili, la notizia mi rallegra di molto.
Lui viene dalla Scozia, io dall'Italia.
Bene.
Poi mi dice che non è bene fare questa salita con tutte questi zaini. Lo guardo incredulo mentre indica i miei zaini, non c'è possibilità di sbagliarsi. Non è come in mongolfiera, mi verrebbe da dire, non posso buttare via magliette e pantaloni per alleggerirmi. Poichè non so come si dica mongolfiera in inglese, gli rispondo che ci penserò per il prossimo viaggio, poi mi limito ad allargare le braccia e ringraziarlo, anche se non so di cosa. A non sapere bene una lingua, spesso si fa la figura da deficiente.
Rimonto in bici, sto un po' meglio, e riparto. Sono le sei e quaranta. Una pietra miliare mi saluta con un 10,9%. Mando mentalmente affanculo lo scozzese, ma forse non voleva scoraggiarmi, proprio come non lo voleva il contachilometri. Ma ormai mancano cinque chilometri, non posso mollare.
"Non puoi mollare" me lo diceva il mio allenatore, quando avevo quindici anni. Era un rompicoglioni che in parte mi ha oscurato la freschezza di quel bellissimo periodo. Quando non andavo agli allenamenti mi telefonava a casa. E poi con qualsiasi condizione climatica facevo i miei bravi sei allenamenti di corsa a settimana(nell'anno della quinta liceo ne facevo otto). E quando c'era la seduta di tecnica(miglioramento dello stile di corsa, per ottenere una corsa più efficace) era tutta una serie di urli:"Finisci le spinte delle gambe" " Non stare col culo basso" "Non atterrare di tallone" e altri ancora. E io coglione, li in silenzio. Non serve a niente stare in silenzio. Ho imparato a controllarmi, ma questo significa tenere le proprie emozioni dentro. Ed è una cazzata.
In cambio avevo il riconoscimento altrui perchè correvo forte. Ed è una cazzata anche questa. Ero così insicuro che avevo bisogno di riconoscimenti ufficiali, di piazzamenti. Che palle.
Qui però sono solo, è diverso.
Dopo un chilometro di rancore, la vegetazione si dirada, alzo la testa e riesco a vedere la cima del monte dove hanno piazzato una stazione metereologica con la forma e i colori di un faro, non è poi male.
La pendenza si attenua un po' e dopo qualche centinaio di metri non c'è più un filo d'erba, solo sassi bianchi di varie dimensioni.
Il vento è un po' più forte, adesso. Il vento è la causa di questa mancanza di vegetazione.
Non fosse per questo cielo turchese, di una tonalità così satura che sembra dipinto, direi che un paesaggio lunare me lo immagino proprio così.
Niente case, niente alberi, solo una serpentina d'asfalto che taglia una pietraia immensa.
Il faro si avvicina.
Mi fermo altre tre volte a prendere fiato.
Qualche tornante prima della vetta c'è anche una specie di gigantesco igloo color acciaio inox, forse un osservatorio astronomico, o forse gli alieni che hanno invaso la luna.
Arrivo finalmente in cima a 1912 metri di altezza, prostrato e - forse stupidamente - soddisfatto. Sono le otto meno venti, per fortuna qui c'è una mezz'ora in più di luce rispetto alla Toscana, scendo con difficoltà dalla bici, in parte per gli zainetti, in parte per il vento. Appoggio la bici sulla roccia, ma viene sbatacchiata giù dal vento. Il tempo di infilare la giacca a vento, di bere un sorso e riparto per la lunga discesa di ventitrè chilometri.
Appena un chilometro più giù mi fermo per fare la foto alla lapide commemorativa di Tommie Simpson, un ciclista morto di infarto durante il tour de France del 1967. Qualche altro chilometro e comincia un fitto bosco, sto battendo i denti dal freddo.
Alle nove e un quarto arrivo a Sault, mi fiondo in albergo, alle dieci esco per scoprire che tutti i ristoranti del paese hanno già chiuso le cucine, i bar sono chiusi. Non mi resta che tornare in albergo e dare l'assalto ad un distributore automatico di merendine e bibite.
Fra i cinque snacks che mangio assegno la palma d'oro del miglior gusto al Kit-kat.
Sto per salire in camera, poi mi ricordo che è la notte di San Lorenzo. Esco, trovo una piazzetta isolata, mi stendo su un muretto, con cuffiette sottofondo di Coldplay, Fossati e Battiato.
Lo spettacolo comincia, il cielo stellato sopra di me.
Ci vuole una buona mezz'ora prima di vedere una virgola luminosa nel cielo, tanto non c'è fretta.
Non desidero altro che essere qui.
Ora.

mercoledì 3 marzo 2010

Acciaio, di Silvia Avallone. Piombino o Macondo?



La mia risposta alla singolare domanda l'ho inserita in Bottega di Lettura. Comunque ve la riporto anche qui sotto.

Il libro in questione parla dell'amicizia di due ragazze adolescenti, sullo sfondo di una realtà sociale raggomitolata su sé stessa, in piena crisi occupazionale. E di acciaio, acciaio immerso in una piccola città ai bordi del mondo, una specie di Macondo. E' Piombino questa piccola città? Così sembra. C'è scritto nel libro.
Ma io non la riconosco, pur avendo vissuto a Piombino per 26 anni e tornandoci un giorno alla settimana per lavoro.
Non parlo della voluta finzione narrativa di spostare dei lunghissimi e sgraziati edifici popolari - soprannominati "lombriconi" - di qualche centinaio di metri per posizionarli davanti al mare, un particolare utile alla narrazione; né sto discutendo della strategia di cambiare il nome della via in cui tali edifici si trovano(via Salivoli è stata battezzata via Stalingrado, nome più evocativo), no.
Parlo di molto altro.
E' come se si sostenesse una tesi, una tesi per certi versi condivisibile: la crisi occupazionale, la perdita del potere d'acquisto salariale, la mancanza di una sufficiente manutenzione nello stabilimento, i troppi incidenti mortali sul lavoro, si agitano sullo sfondo di questo romanzo, ed è bene parlare di queste cose. Ma l'impressione che ho avuto è che l'autrice si sforzi di avvalorare questa tesi attraverso ogni singola parola di cui si scrive nel libro. Alla fine la parola d'ordine di Piombino, per quanto possiamo leggere, è il degrado. A tutti i livelli.
"Dopo quarant'anni tutto era cambiato: c'erano l'euro, la tv a pagamento, i navigatori satellitari, e non c'erano più né la DC né il PC. Era tutta un'altra vita adesso, nel 2001."(pag.17). D'accordo.
E più giù si scrive:"...la sabbia si mescolava alla ruggine e alle immondizie, in mezzo ci passavano gli scarichi, e ci andavano soltanto i delinquenti e i poveri cristi delle case popolari. Cumuli e cumuli di alghe che nessuno dal comune dava l'ordine di rimuovere."
"La spiaggia era infestata di bambini e famiglie grasse...C'erano resti di lasagne dentro teglie di alluminio, e altre scorie come torsoli di mela buttati sulla sabbia(pag.321)."
Di tutto ciò che l'autrice ha scritto della spiaggia di Salivoli, non c'è niente di vero; basta guardare, in estate, in una sera qualsiasi una spiaggia qualsiasi del promontorio - anche Salivoli, sì - per constatare che quasi tutte le famiglie e anche i ragazzi lasciano l'arenile sostanzialmente pulito, li vedi andar via con i sacchetti in mano che depositano nel bidone. Niente scarichi, un depuratore funzionante e l'Arpat che da anni e anni in quella spiaggia registra acque pulite. Mi domando a cosa serva tutto questo calcare la mano.
"Cosa significa crescere in un complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile dove i bambini giocano accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano? Che genere di visione del mondo ti fai, in un posto dove è normale non andare in vacanza, non sapere niente del mondo, non sfogliare il giornale, non leggere i libri, e va bene così?"(pag.32) La voce narrante che si insinua tra l'autrice e, in questo caso, tra le due amiche adolescenti, è invadente, infarcita di giudizi che appesantiscono la narrazione stessa(i giornali, i libri, le vacanze, questi perfetti sconosciuti che sanno tanto di illazioni). Tra l'altro immagino che di amianto, a Piombino, se ne possa purtroppo reperire in abbondanza nell'area industriale dismessa, ma dubito che se ne possa trovare oggi un solo grammo in quei casermoni popolari.
"E non si capiva perché questi genitori dovessero incazzarsi in continuazione: in fondo quei ragazzini stavano solo giocando a guardia e ladri per le scale(pag.34)."Continua l'invadenza della voce narrante, stavolta slegata da qualsiasi personaggio del libro. Questo stupirsi di qualsiasi cosa avvenga tra le mura domestiche nel comprensorio di Piombino.
"Sandra ebbe un moto di rabbia. Lo sapeva anche lei che andava così, che le donne si fanno ammazzare dai mariti e nessuno dice niente. Perché è vero che siamo in Italia, ma è un paese di merda(pag.183)." Ecco la voce narrante che soccorre la storia, raccontando e giudicando. Limitarsi a mostrare un mondo sarebbe molto più efficace, a mio avviso, che volerlo spiegare con dei giudizi perentori.
"Se sua madre fosse andata in Questura, anziché dal medico di base...Ma Satta, il dottore, non era deputato a risolvere i problemi delle famiglie...(pag.216)" E non se ne esce: anche i medici di famiglia a Piombino sono, a quanto pare, più insensibili e miopi rispetto al resto d'Italia; anche di fronte alle percosse. Nella narrazione le percosse sono chiare, evidenti, e una delle protagoniste si imbatte in un medico che non sa fare il suo dovere(forse dei segni più sfumati, meno lampanti, sarebbero stati più credibili per alimentare il dubbio sulla eventuale denuncia da parte del medico, e altrettanto efficaci per la narrazione).
"I vecchi parlavano di donne ucraine....Nessuno ascoltava nessuno, se non c'erano di mezzo sesso e soldi(pag.224)." "Alla gente non gliene fotteva assolutamente di quel che succedeva in America(pag.226)". Viene fuori un mondo insensibile perfino alla diretta dell'undici settembre 2001, una delle tragedie planetarie che più di ogni altra ha tenuto la gente incollata alla tv. La classe operaia che non va in Paradiso.
"...la notte di Capodanno...Una lavatrice scaraventata in cortile, una decina di feriti al pronto soccorso e un bambino senza una mano(pag.256)." Un bambino senza una mano, una lavatrice buttata giù, mai visto né sentito a Piombino una cosa del genere, almeno dagli anni settanta ad oggi.
"...Scendeva le scale a precipizio, schivava una bambina accucciata a fare pipì...".Ho vissuto in un condominio di case popolari a Piombino, mai viste in vent'anni bambine a fare pipì per le scale. Fortuna, forse.

Da segnalare un paio di problemini con i complementi di termine.
"Non gli[le sarebbe stato più appropriato, visto che è Anna di cui si parla ndr] veniva più da ridere se si spogliavano(pag.69)."
"Fino a quando non gli veniva fame, allora si pigiavano urlando nello stambugio della friggitoria." Non veniva loro fame, visto che il complemento di termine qui è plurale, sarebbe più appropriato.

"Di fronte, a quattro chilometri, le spiagge bianche dell'Elba rilucevano come un paradiso impossibile(pag.17)."
"Basta un traghetto, eppure non ci sono mai andata, non l'ho mai vista. Soltanto quattro chilometri(pag.52)." La distanza minima tra Piombino e l'Elba è di 10 chilometri.
"Imboccava la statale che fiancheggiava per dieci chilometri il perimetro della fabbrica(pag.211)."
I chilometri sono più o meno quattro e la statale è una provinciale.
"Francesca non se ne perdeva una di vetrine: e Replay, e Rinascente, e Benetton, e pure il Semaforo Rosso che vende roba da vecchie(pag.270)." La Rinascente a Piombino non c'è mai stata.
"Quando arrivarono all'incrocio con Villa Marina, si fermarono al semaforo dentro un nido di silenzio cristallino. Aspettarono che il rosso diventasse verde(pag.300)." Nell'incrocio con Villa Marina non c'è mai stato alcun semaforo.
Niente di male in tutto questo , ma se, ad esempio, si parla in un altro passo del libro della gioielleria Scognamiglio, che solo a Piombino esiste, si richiederebbe altrettanta cura nella descrizione dei luoghi e negozi. Oppure ci inventiamo Macondo.
Per concludere aggiungo una mia impressione, come tale del tutto soggettiva: gli operai a Piombino hanno perso con il passare degli anni in credibilità, in salario, in iniziativa personale, in identità politica. Ma ciò che non passa sufficientemente, a mio avviso, da questa narrazione, è la persistenza in loro di una grande umanità e una dignità tuttora esistente: il degrado non ha fatto breccia nelle loro coscienze. Forse tutto questo cozzerebbe con la tesi di partenza, meglio non scriverne.
Non sarebbe funzionale, per dirla alla Cechov.