Undici
e quarantotto
Ciao
cara Anna, non preoccuparti per noi. E' proprio come ho risposto ieri
al tuo sms. Io e Silvia stiamo bene. E la mamma pure. Fabrizio,
anche. Stiamo tutti bene, stai tranquilla. L
'altro ieri sera Silvia era rimasta a cena a casa nostra. La mamma
aveva mangiato solo un brodino e verdure lesse, poi se ne era andata
a letto. Io e Silvia ci eravamo preparate spaghetti alle vongole, poi
cocomero a volontà. Silvia era allegra, in vena di confidenze, si
lamentava in modo bonario di Fabrizio, di come si addormenta sul
divano, e del fatto che non ha mai voglia di uscire, nemmeno in
serate afose come queste.
Dopo
cena stavamo sul terrazzo, poi Silvia ha voluto vedere un quadro che
avevo esposto a Camaiore, tante onde di libeccio che si frangono
sugli scogli, perfino sulla cornice del quadro. Ne abbiamo parlato un
po', anche Silvia ama dipingere. Si erano fatte le undici, e io stavo
pensando alla successiva giornata di lavoro. "Silvia, io faccio
la doccia, domani mi devo alzare presto, tu che fai?" Lei non ha
battuto ciglio. Mi ha seguito in bagno, quella sera era un gioioso
diluvio di parole, io ho fatto la doccia, poi mi sono messa
l'accappatoio e ho iniziato ad asciugarmi i capelli. Silvia a quel
punto ha deciso di tornare a casa, forse il rumore del fon le stava
rovinando l'incanto.
Ora
seguimi bene, Anna. Undici e trentacinque.
Silvia
parte col motorino, le sorrido dal terrazzo. Torno in bagno. Prima di
completare i capelli, decido di lavarmi i denti, poi il filo
interdentale. Sento un boato, come il colpo finale di una serie di
fuochi d'artificio. Poi altri scoppi. Devono essere fuochi, sì, è
estate, è normale. Forse in qualche posto vicino festeggiano san
Pietro e Paolo. Non a Viareggio, penso. Forse a Lido. Riprendo il fon
in mano. Suona il telefono, quello di casa. Strano. Gli amici mi
chiamano al cellulare, forse è Giulio, il fratellone che sta a
Massa, quello senza orari.
"Pronto."
"Lina,
sono io! Sono Silvia! Stiamo bene, ma è un casino, c'è fumo, puzza
di gas, fuoco..."
"Silvia,
dove sei? Che è successo?"
"Sono
a casa! Ci sono fiamme qui vicino! Noi scappiamo..."
"Dove?
Dove?"
"Torre
Matilda, ciao tututu"
"Silvia!"
Mi
infilo una maglietta e pantaloni, parto in ciabatte e capelli
bagnati. Sto piangendo, ho paura. Mi avvicino alla stazione, vedo
fiamme alte. Arrivo sgommando in cinque minuti al parcheggio di Torre
Matilda. Vedo gente che urla e si dispera, non vedo Silvia, mi
tremano le gambe. Silvia mi abbraccia da dietro.
"Lina!"
mi urla. Ci teniamo strette per due minuti buoni, dietro i miei
occhiali rigati di lacrime pian piano riconosco Fabrizio. Ha un paio
di boxer e una canottiera. Silvia è in mutande e maglietta. Dopo la
gioia di esserci ritrovati, ci guardiamo intorno. Gente scappata,
sconvolta, qualcuno sdraiato sull'aiola in preda a malore. Forse una
bombola di gas, forse una macchina, forse una casa. Arrivano due
ragazzi con lo scooter.
"Ha
deragliato un treno che portava gas, ci sono via Burlamacchi e via
Ponchielli con case e auto che bruciano! E anche la passerella sulla
ferrovia!" Hanno le guance arrossate, dal telefono cellulare
fanno vedere un filmato a un amico. Le fiamme si vedono anche da qui,
dalla torre Matilda, a cinquecento metri dalla ferrovia. Arrivano
persone disperate, che cercano altre persone. Tutti in mutande. Come
loro passeremo tutta la notte lì, sotto la torre Matilda.
Silvia
è passata da via Burlamacchi alle undici e quarantacinque, tre
minuti prima dell'esplosione. Si è salvata per tre minuti. Cara
Anna, quando ti salvi per tre minuti pensi a quelli che per tre
minuti non si sono salvati. Certi pensieri mi ricordano le divisioni
che lasciano un resto, un resto che non sai come gestire. Due ragazzi
avevano attraversato la passerella alle undici e mezza, sono tornati
indietro perché uno dei due aveva lasciato il telefonino a casa
dell'amico. E di quell'operaio che passava con il motorino tre minuti
dopo Silvia, non se ne è trovata traccia. E oggi molte persone che
stavano nelle case esplose in via Ponchielli sono ustionate al
novanta per cento e moriranno nelle prossime settimane. Noi stiamo
bene, Anna, ma non posso dire altrettanto della nostra, della tua
città.
C'è
un prima e un poi. Sul crinale c'è il ventinove giugno, alle undici
e quarantotto.
Nessuno
in città vuole parlare di quel fischio prolungato, di quella nuvola
bianca, dell'odore acre, un boato, un altro, un altro, un altro
ancora.
Qui
tutti si conoscono, c'è una rete invisibile che lega i morti i
feriti e i sopravvissuti. Pensa che in questa terza notte, nelle
tende allestite per le centinaia di sfollati non c'era più nessuno,
tutti avevano trovato ospitalità a casa di parenti amici e
conoscenti.
Questa
rete invisibile lavora sui ricordi. Io ho perso una ex compagna di
scuola; di lei mi ricordo la sua schiaccia salata, che prendeva dal
fornaio in via Regia. Poi la nipote di un mio amico - con la falda di
capelli che scendeva sulla fronte, il lucidalabbra con i brillantini,
le All Stars - che aveva portato ad una cena, presentandola come "il
suo tesoro". Questo è il mio bagaglio di ricordi, ma sono in
molti quelli che sulla schiena al posto di un fardello, hanno un
macigno di disperazione.
La
scorsa notte c'era un uomo seduto sul marciapiede che aveva perso la
compagna nelle fiamme di Via Ponchielli: si teneva la testa tra le
mani, la bocca spalancata, il viso contratto. Pareva che urlasse, ma
dalla sua bocca non usciva suono.
All'ospedale
Versilia, dopo l'ennesimo bambino grandemente ustionato, un pediatra
ha cominciato a urlare, battere i piedi, poi ha appoggiato la testa
verso le piastrelle della stanza, abbracciando il niente. Dopo dieci
minuti di mattie si è rimesso all'opera.
Oggi
mentre andavo al lavoro, come ieri, avvertivo il silenzio. Niente
clacson, niente radio, niente trapani, cantieri, niente bambini in
bicicletta che ridono e urlano. Quel silenzio, Anna, entra dentro,
spacca, urla.
Noi
stiamo bene, Anna. Per tre minuti di anticipo.
Un
bacio.
Tua
Lina