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domenica 8 marzo 2009

Il mio cammino di Santiago - 8




O Cebreiro, otto giugno, le otto del mattino.
Oggi abbiamo puntato la sveglia più tardi, date le fatiche della precedente giornata. E al risveglio una brutta sorpresa: Paolo ha un ginocchio gonfio e dolente, non può proseguire il Camino con noi. Si ferma qui, su O Cebreiro. Per un giorno, poi vedrà il da farsi. Dopo interminabili giorni di fatiche condivise, l'allegro gruppetto si assottiglia, la tristezza ci pervade. Pare quasi di sentire un Fado del vicino Portogallo.
Prima della partenza, una foto con autoscatto. Immortalati su una specie di terrazzamento naturale, monti e colline sulle sfondo, e un'ampia porzione di cielo che dà una buona approssimazione di quanto orizzonte abbiamo a disposizione. Lo sguardo scanzonato di tutti e quattro; Paolo indossa dei jeans ed una felpa, invece del nostro ridicolo abbigliamento da ciclisti. Abbracci di rito, poi qualche commiato, dei vaghi appuntamenti: forse ci rivedremo a Santiago, comunque ci terremo in contatto, in Italia ci ritroveremo un fine settimana a guardare foto e magari anche per una "biciclettata", chissà...
Si riparte in tre, dunque. Piove. Mi ritorna in testa un canto, una musica - credo - galiziana che ho sentito ieri sera: suonavano delle cornamuse, molto in uso da queste parti. Subito dopo quel canto galiziano avevano solennemente suonato l'inno nazionale scozzese. I paesi baschi, la Galizia, la Bretagna, la Scozia, l'Irlanda... un filo rosso che lega e accomuna popoli distanti l'uno dagli altri centinaia di chilometri, dalle tradizioni forti, da un'identità che suona come accoglienza più che intolleranza. Questi canti mi aiuteranno a sentire meno la fatica, che si affaccia un po' troppo presto, alla prima imprevista salita. 
C'era l'illusione di essere in cima, di avere davanti una comoda discesa, delle cartine non c'è mai da fidarsi. In realtà per dodici chilometri si andrà avanti per saliscendi, e i "sali" sono anche di notevole pendenza. In Alto do Poio, il punto più alto del monte Cebreiro, troviamo una statua enorme di bronzo, un monumento al pellegrino di discutibile gusto.
Ora si scende sul serio, per fortuna la pioggia è lieve. I boschi non lasciano vedere altro che boschi. Verde e blu da un lato, verde e blu dall'altro,  separati dalla striscia grigia della strada. E' semplice. Ti ci abitui, sono giorni che ti alleni a questo, e la complessità  - legata al senso comune che tanto dà per scontato - si svapora, come questa nebbia del mattino. Questa discesa ti dà il tempo per pensare al contrasto tra qui - un niente dalla bellezza rigogliosa - e il mondo che raggiungerai tra un paio di giorni, il mondo che avevi quasi dimenticato, come per effetto di una maga Circe in un'isola mediterranea.
A Triacastela si tira diritto, neanche un caffè, e si torna a salire per un dislivello di trecento metri in cinque chilometri, e via ancora discesa, fino a Sarria. Qui ci fermiamo presso un pittoresco albergo del pellegrino - peccato che stia attaccato ad un distributore di benzina -, ci facciamo timbrare la Credencial(il documento che attesta il nostro percorso), due chiacchiere con la signora che ci parla del Supradine. Ne ha distribuito in quantità industriale ai pellegrini quest'anno, proporrà il Nobel per l'inventore di tale prodigio. Si prosegue, si intravede - sempre in Sarria - dalla strada il torrione di un castello, delle mura medievali. Abbandoniamo il paese, percorriamo la strada asfaltata per fortuna non molto trafficata. Gran caldo, la pioggia di stamani è ormai un ricordo. Ancora salita e poi discesa a capofitto, il profilo altimetrico pare il bordo tagliente di una sega da falegname. Ma questa discesa prende un andamento netto, si va giù, alla nostra sinistra c'è un rio e nel punto più basso di oggi (350 m slm) si arriva a Portomarin; c'è una diga ed un grande bacino artificiale nel quale si intravedono alcuni resti del vecchio paese - affiorano alcuni tetti -  che è stato smontato e rimontato - almeno i monumenti ed alcune case storiche - un po' più in là  e un po' più in su.
Ricominciamo a salire, ma ci fermiamo quasi subito. C'è una ragazza sdraiata in terra, e una che l'assiste. Mathias le dà da bere una soluzione salina, poi prendiamo in custodia il suo pesante zaino per portarlo un chilometro più in là, all'albergo del pellegrino. Dopo un po' arrivano le ragazze, il viso segnato dalla fatica. Ci salutiamo, il loro cammino riprenderà domani. Più in là, nella piazza del paese, ci fermiamo a mangiare qualcosa di veloce e bere un'autocisterna di bevande gassate. Abbiamo ancora sessanta chilometri da percorrere.
Si riprende con una salita non impossibile, ma lunga, che durerà per sedici chilometri; ma è l'ultima grande salita, questo pensiero dà coraggio, una piccola spinta in più. Poi un cartello, enfatizzato da alcuni punti esclamativi aggiunti a penna: SANTIAGO 100 KM. Ormai ci sono, ci sto dentro a questo viaggio, e questo cartello è il primo segno tangibile del fatto che quest'esperienza sta per terminare. Non riesco a spiegare bene la causa - c'è un groviglio di cose su cui dovrò riflettere - l'effetto è un'intensa emozione che mi prende un po' sotto alla bocca dello stomaco.
Il tardo pomeriggio ci accoglie silenziosi, si srotola il nastro d'asfalto, un caleidoscopio di boschi e casette e pascoli che gira a dodici-quindici chilometri l'ora, e noi lì a guardare.
Arriviamo a Palas de Rei che le cose cambiano radicalmente, il nostro libretto che usiamo come guida, un po' manicheo in questo caso, non ci invoglia alla sosta: "Palas de Rei, grande e moderna città piena di macchine e di smog". La statale la percorre interamente, anche noi e via lo smog, mancano ancora sedici chilometri. Arriviamo, finalmente, alla nostra destinazione di oggi: Melide. Sono le sette, abbiamo percorso centodieci chilometri. Ci sistemiamo nell'albergo del pellegrino, non esaltante: le camerate sono un po' affollate, i letti - peraltro corti, da testa a piedi non c'entro, eppure non sono un gigante, sono un metro e settantacinque - gemono al minimo spostamento, vabbeh, doccia e via  fuori a cena.
Melide non ha niente di particolare. Eppure si ferma qui un sacco di gente. Perché? Per la presenza di una "pulperia", la più rinomata di tutta la Galizia. Entriamo. In un angolo del locale c'è un tipo dietro ad alcuni barili che taglia tutta la sera dei polpi con le forbici, e li sistema nei piatti. Il resto è composto da tavoloni e panche in legno. Ci sediamo. Per due ore abbondanti non facciamo altro che mangiare polpi, bere vino e parlare, e ridere. Di continuo. Abbiamo mangiato una quantità impressionante di polpi, bevuto due-tre - o quattro? - bottiglie di vino, e abbiamo speso venti euro a testa. Non ancora contenti, ci fermiamo in un bar a mangiare un gelato, e intanto riprende a piovere in modo torrenziale. Che ci volete fare, in Galizia è così, come in Irlanda.
Intanto parliamo di domani, come non parlarne? Domani ci sarà Santiago. Dobbiamo svegliarci presto, prima delle sei; vorremmo essere a mezzogiorno a Santiago, nella cattedrale.
Non ci sembra vero.
A domani.
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2 commenti:

Anonimo ha detto...
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Anonimo ha detto...
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