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venerdì 27 febbraio 2009

Il mio cammino di Santiago - 7



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Astorga, sette giugno, le sei del mattino.
Siamo già tutti e quattro in piedi a sistemare i bagagli, ci aspetta una giornata molto impegnativa.
Per fortuna è stata una notte riposante. Ieri sera mi ero addormentato di schianto, dopo una passeggiata coadiuvante la digestione di varie specialità di pesce, durante la quale Paolo ci ha raccontato dei suoi problemi di salute. Una decina di anni fa è stato operato alla testa per problemi di circolazione del sangue, nonostante l'intervento fosse denso di rischi. Ma non aveva altra scelta: prima dell'intervento aveva continui attacchi epilettici, svenimenti, parestesie che non gli consentivano più una qualità di vita accettabile. Dopo l'operazione, al suo risveglio, non muoveva più le gambe. Per un anno è rimasto in carrozzella, poi un lento ritorno alla normalità, con l'aiuto della provvidenza da una parte, e della sua forza d'animo dall'altra. Fino a tornare a camminare, fino alla ripresa della sua attività lavorativa.
"...ma si ricordi che la sua sensibilità alla gamba e al piede destro è molto ridotta. In modo irreversibile. Il suo quadro neurologico dovrà essere attentamente monitorato nel corso del tempo. Niente più sport, niente sforzi estremi, mi raccomando. Dovrà condurre una vita tranquilla, in sostanza..." gli disse un neurologo di chiara fama.
Dopo quelle raccomandazioni, nel corso degli otto anni successivi, Paolo ha praticato la bicicletta, ha corso a piedi alcune maratone, volato in deltaplano, parapendio, è stato sull'Everest fino ai seimila metri. Il riposo può attendere. E stamani è qui con noi, in cammino.
Oggi dovremo valicare la cima più alta di tutto il viaggio, la Cruz de Hierro (croce di ferro) a 1505 metri, e dopo una lunga discesa, raggiungere O' Cebreiro a 1300 metri, meta di oggi.
Con la consapevolezza di affrontare la giornata più dura - fisicamente, intendo - del Camino, abbandoniamo alle sette e un quarto il borgo di Astorga e ci disponiamo in fila indiana lungo uno stretto sentiero che per molti chilometri è costellato quasi unicamente da un arbusto zeppo, carico, saturo - non saprei che altro dire per trasferire il senso di pienezza dell'immagine - di piccoli fiori gialli (no, non è la ginestra), dal profumo fragrante (quasi la scorza del limone, ma meno pungente, un odore che si sente spesso in erboristeria), l'effetto ottico è straordinario. La foto del post ritrae l'arbusto, qualcuno mi sa dire che pianta potrebbe essere?
Si sale in modo costante, senza strappi, fino a Rabanal del Camino, sempre circondati da macchia e piante basse. E qui, a 1100 metri tornano i boschi che non vedevamo da alcuni giorni. Castagni, abeti, larici. La strada si impenna, è un brulichio di tornanti, e la fatica e il caldo, invisibili ma fedeli compagni, ci affiancano e non ci molleranno per l'intero giorno. A qualche tornante dalla vetta, la strada raggiunge la pendenza del 15% - per fortuna per un breve tratto - e improvvisamente si passa dall'asfalto al terreno sconnesso, scendo e spingo la bici per un centinaio di metri, poi risalgo, giusto in tempo per ammirare seduto in sella il bosco che si apre, lasciando posto al pascolo e ad un orizzonte in cui si alternano sierre e mesetas; l'occhio indugia sul bordo - lontanissimo - e cerca di indovinare cosa ci sia "al di là".
Finalmente in cima.
Un robusto palo di legno alto una quindicina di metri sormontato da una sobria croce di ferro, è tutto, la cruz de hierro non è altro che questo, un carico di simboli e di speranze. Da circa novecento anni i pellegrini che passano di qui lasciano una pietra alla sua base - ne risulta un enorme mucchio di pietre, alto almeno una decina di metri - alleggerendosi di qualche peccato. Il palo di legno è zeppo di preghiere, quadretti incorniciati, foto di propri cari, croci, conchiglie - conchas - del Camino.
Mi soffermo sulle foto, su alcune di quelle foto.
Un'umanità intera, archetipica, antica come il mondo.
Persone ammalate, i propri cari affidano la loro immagine qui, dove il cielo è più vicino - una posizione privilegiata - e sperano.
Persone già morte, i pellegrini pregano per la loro anima, oppure pregano per non dimenticarle.
E ancora: compagni/e, fidanzati/e, persone con cui un/una lui/lei spera di condividere una vita intera, si rivolge al cielo - sì, qui è davvero vicino - e ci si affida.
In pegno lasciano un'effigie, una preghiera, e l'"im-pegno" di portare a termine il Camino con le proprie gambe.
Deposito il mio sasso. Ci fermiamo a bere e parlare quanto basta, poi ripartiamo, la giornata è ancora lunga.
Una discesa lunga più di venti chilometri - punte del 26%(!) di pendenza - ti fa venire i dolori alle mani per la lunga frenata e in meno di un'ora perdiamo mille metri di altitudine arrivando a Ponferrada, dove ci fermiamo per mangiare. Abbiamo percorso cinquantacinque chilometri, ce ne "rimangono" cinquantasei. Complice la stanchezza, ed un sole che giustifica una sorta di coprifuoco della popolazione locale, la pausa nel centro di Ponferrada si protrae per quasi due ore. Un'occhiata all'esterno del castello templare, una visita alla basilica di stampo barocco, una sosta per mangiare, quasi ci addormentiamo sui tavolini. Una chiacchierata con quattro olandesi (due di loro viaggiano con un pittoresco e leggero - tutto in alluminio - tandem, che però li costringe ad evitare gli sterrati), che hanno già percorso duemila chilometri, ne faranno altrettanti per tornare a casa. Non hanno fretta, sono in pensione ed è solo la strada che suggerisce loro dove fermarsi.
Si riparte, sono le tre. Si viaggia per altri venti chilometri in piano, poi si ricomincia a salire, ma senza strappi. Sono le sei passate, ci domandiamo se potremo arrivare lassù, a O Cebreiro, oppure fermarci prima. Intanto si continua a pedalare, e si parla, la dolce salita ce lo consente. Si pedala e si parla, e si mangia, e si dorme. Qui è normale, in Italia non ce lo sogneremmo nemmeno per un istante di condurre una vita del genere, percorrendo lo stivale - tanto per fare un esempio - dall'alta Toscana fino a Reggio Calabria. La fatica leviga, smussa le asperità; mi sento come un ciottolo di fiume.
Sono le sette e mezzo, mancano dodici chilometri, il muro di salita è davanti a noi.
Decidiamo di proseguire.
Paolo si sente molto stanco, Michele non lo molla un attimo, lo incoraggia con dei "Vai Paolinooo...", ogni tanto cantano a squarciagola delle canzoni in un mix di dialetti lombardo-veneti, e via grandi risate. Mathias va un po' avanti e indietro.
Quando ci troviamo al primo muro, provo una grande difficoltà con i miei rapporti duri di bici da corsa. Per far meno fatica, sono costretto a far girare i pedali ad una velocità sufficiente, altrimenti mi pianto. Lo dico agli altri, provo ad andare su un po' più veloce, teniamo i telefoni accesi, appena - e se ce la faccio - arrivo su, cerco quattro posti per dormire, che sia albergo o ostello o rifugio - nelle guide c'è scritto che O Cebreiro è molto frequentato - insomma io vado.
Mi defilo pian piano dai tre amici, e inizio a danzare all'ombra dei castagni. Mi alzo sui pedali per lunghi tratti, faccio un po' più fatica alle braccia ed alle spalle, ma un po' meno alle gambe. E quando ti alzi sui pedali per lunghi tratti, spostando il corpo alternativamente a destra e sinistra, è come se danzassi.
Ballo, anche se non so ballare.
Di tanto in tanto si dirada il bosco, si fanno largo pascoli del tipo "mucca felice", qualche vecchia casa, il vento, la nuova strada a quattro corsie che sormonta la vecchia, quella dove siamo, fortunatamente deserta. Oltre alla pendenza, psicologicamente la fatica è accentuata dalla assenza di tornanti: la strada è un piano inclinato che va su ad libitum senza il minimo cambiamento, che taglia il monte in due parti come un coltello in un panetto di burro. New entry: nugoli di mosche che non si preoccupano del fatto che io sia in movimento. Mi ci vorrebbe una coda per poterle scacciare.
La fatica è tanta, col senno di poi penso che due montagne in un sol giorno siano un'esagerazione, che avremmo potuto...che sarebbe stato meglio se...ma, del resto, per fare il Camino in dieci giorni - domenica mattina ho l'aereo, lunedì mi aspettano pazienti a bocca aperta - non ci sono grandi alternative, solo piccole variazioni. La fatica è quella. Ma poi ogni tanto mi rilasso e guardo, salendo, sempre maggiori porzioni di orizzonti e panorami. Se anche la mente potesse fare altrettanto. Il vento, un vento fresco che sa di Oceano - dopo O Cebreiro non ci sono più alte montagne, c'è la Galizia con Santiago e Finisterre - ti annuncia un cambiamento netto: di clima, di gente, di lingua(un dialetto di matrice gaelica).
Un hotel, alcune case racchiuse in un borgo che va sotto il nome di Piedrafita, un bivio. Verso sinistra l'indicazione con la conchiglia del Camino di Santiago e la meta del giorno: O Cebreiro km 4. Pensi che sia fatta, invece non sei ancora arrivato. Quattro chilometri di forte pendenza, il vento più sostenuto, il sole che va giù dietro il crinale del monte, la temperatura che si abbassa rapidamente.
Non c'è anima viva in giro, finalmente si intravede il paese, un bel borgo con tetti in ardesia, riesco a scorgere il tetto ad angolo acutissimo e il campanile di una bella chiesa romanica, sovradimensionata, direi, rispetto al numero di case.
Le ultime curve, arrivo.
Mi fermo a centoundici chilometri.
Sono le nove e un quarto.
Mi fiondo dentro una locanda. Non hanno posto per dormire, il mio scoramento si legge sul viso. La tipa me lo legge, tira su il telefono, parla in un modo per me incomprensibile e poi mi sorride. Mi indica cento metri più su un piccolo albergo, non capisco la strada - peraltro molto semplice, O Cebreiro è un buco - ma per fortuna scende il proprietario dell'albergo che mi precede. Spingere a piedi la bici carica di bagagli sull'acciottolato del vicolo in salita è l'ultima fatica del giorno. Ci sono le ultime due camere doppie libere (più tardi scopriremo che l'albergo del pellegrino è al completo). Telefono a Michele per indicargli la pensione, stanno arrivando.
Ci aspettano due camere accoglienti, una doccia, un pasto abbondante, quattro chiacchiere. E' tutto così semplice, quasi ingenuo, tuttavia ne sono felice.
Non è solo la fatica, è anche il Camino, e la strada, e i suoi immensi cieli, i cieli di Spagna, nelle più variopinte tonalità - dal rosso tramonto all'indaco al blu notte, alla stessa notte co-stellata di virgole luminose - che ti levigano, ti semplificano.
Un processo che regala brandelli di felicità, non esente da sofferenze.
A domani

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