Pagine

venerdì 6 febbraio 2009

Il mio cammino di Santiago - 5




Cinque giugno, ore sei e mezza.
E' stata una nottataccia, con la fame di aria fresca che mi ha preso a metà notte e mi ha costretto ad andare in bagno - ciò significa aver dovuto effettuare un percorso ad ostacoli al buio tra letti a castello e zaini e scarponi - con un concerto grosso composto da russamenti vari e accessi di tosse. Vedere il sole mi dà un sollievo maggiore del solito.
Si parte, finalmente.
Siamo alla periferia di Burgos, raggiungiamo un bel sentiero in un paio di chilometri, un po' contrariati del fatto che non abbiamo ancora trovato un bar. Il sentiero costeggia un fiume, sui bordi del quale si stendono delle vaste pioppete. A tratti il polline dei pioppi forma dei tappeti nevosi, Mathias - allergico, giustappunto, al polline dei pioppi - ce li segnala in anticipo con starnuti ed occhi rossi. L'attesa per la colazione sarà ampiamente ripagata: dal sentiero spunta una locanda dove ci preparano bocadillos con prosciutto e pomodoro strusciato, paste con crema e cioccolato, torta di mele, spremute. Riprendiamo il cammino, a breve il corso del fiume ci abbandona. Siamo sulla meseta (leggi altopiano), si viaggia costantemente tra gli otto ed i novecento metri. Da come lo presentavano le guide, mi aspettavo un paesaggio aspro con campi bruciati dal sole, probabilmente a luglio ed agosto sarà così. Ma adesso ci sono campi di grano che si inerpicano su falsopiani dal terreno irregolare; sui bordi dei campi ci sono spesso delle pietraie, esiti di bonifica dei campi. E isole enormi di papaveri che ti catturano lo sguardo, che si perdono su per la collina fino ad insanguinare l'orizzonte. Per una quarantina di chilometri sarà sempre così. Vieni cullato da questa sensazione di estrema solitudine. Prosegui in rispettoso silenzio, con le quattro bici che si sgranano sui versanti ripidi e si riuniscono sui crinali. E rivolgi qualche sorriso e qualche "Buen camino" ai pellegrini che di tanto in tanto raggiungi. In molte altre parti del mondo ti chiederesti perchè diavolo queste persone stiano affrontando a piedi questi posti, lontani da ritrovi e attrattive confezionate per turisti, qui no. Il senso comune è stravolto: ci si alza all'alba senza mugugnare, gli alberghi del pellegrino si svuotano simultaneamente in ogni punto del cammino, e si comincia a camminare, o pedalare, e ognuno ha la sua motivazione per farlo, nessuno ti prenderà per matto (ma poi se qualcuno ti prendesse per matto, chissenefrega?).
I saliscendi continuano, verso le undici ne affrontiamo uno abbastanza ripido, cui segue una sassosa discesa a rotta di collo. Finita la discesa si apre un piccolo borgo, tre case una chiesa una fontana una locanda. Ti chiedi come possa qui sopravvivere una piccola comunità. Mi sento investito da un'emozione intensa, anche se non riesco a spiegare esattamente il perché. Provo a spiegarmi, comunque. Sto qui a contemplare questa fontana, queste poche case in pietra che hanno strappato la loro esistenza ad arbusti, e alberi e specie arboree e a rocce; mi sembrano sempre esistite, non riesco ad immaginare il giorno in cui degli uomini hanno decretato la loro creazione. Non chiedono ulteriori espansioni di territorio, non chiedono parcheggi, non chiedono automobili, non chiedono strade. La vegetazione circostante le lambisce, le accarezza. Isole architettoniche. Armoniche.
Dopo un'altra ora di pedalata arriviamo ad una chiesa sconsacrata risalente all'XI secolo, adibita oggi all'ospitalità dei pellegrini, quindici posti letto, niente luce la sera, a parte le molte candele, e il cielo stellato là fuori, lontano da centri abitati. Uno spettacolo, ci assicurano, un cielo stellato degno della massima di Kant. Ci stanno dei signori di Genova a gestire l'accoglienza, lo fanno per due settimane all'anno, poi un'associazione si occupa dell'invio di altri volontari, per quasi tutto l'anno. Chissà, mi domando, quanta gente avranno visto in questi giorni, quante storie avranno ascoltato, quanti sorrisi, quante strette di mano.
Dopo sessantaquattro chilometri ci fermiamo a mangiare a Fromista, un centro agricolo con una chiesa romanica piuttosto imponente, purtroppo è chiusa. E' impressionante la quantità di bevande (cocacola, fanta, birra) che riusciamo a far fuori durante il pasto. Dopo un'ora ripartiamo alla volta di Carrion de los Condes, con destinazione finale Sahagun, altri sessanta chilometri, in cui il sentiero costeggia spesso la nazionale, e così alterniamo l'uno all'altra, tanto per arrivare un po' prima, visto che la giornata non è impegnativa, ma i chilometri sono tanti. Orzo, grano, e qualche paesino.
Ad una ventina di chilometri dall'arrivo si sente già la periferia di Sahagun, e come tutte le periferie di città piuttosto grandi, lo spettacolo peggiora sensibilmente. Fabbriche, prefabbricati di varia destinazione d'uso, depositi di carburanti, case prive di intonaco, come a voler dire che prima o poi le finiranno, appena trovano i soldi per riprendere i lavori.
Una salitona finale in mezzo a scalinate, e siamo a Sahagun. L'albergo del pellegrino è lì, alla fine di questa salita. Anche qui una grande chiesa sconsacrata, ristrutturata, la chiesa de la Trinidad. Doveva essere andato il tetto, l'hanno rifatto di legno chiaro, accostando elementi moderni - tetto, scale, camere, sembrano provenienti da un catalogo Ikea - alle mura esterne, inserendovi al primo piano l'albergo del pellegrino piuttosto confortevole, dotato di sessanta posti letto ed adeguati servizi, e al pianterreno un teatro con platea annessa.
Oggi abbiamo pedalato per centoventiquattro chilometri, abbiamo oltrepassato metà percorso.
L'aria frizzante e vitale dell'Oceano è ancora lontana, qui si respirano gli splendori ed i fasti di un tempo che non esiste più. Un'aria fatiscente, decadente, percepibile in un tramonto che sembra non finire mai, con il sole che indugia a mezz'aria prima di piombare sulle vecchie case di pietra chiara.

Nessun commento: