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lunedì 23 marzo 2009

Vanessa





"Pronto?"

"Giulia, sono arrivato."

"Meno male, Stefano. Mi stavo agitando un po'...Tutto a posto?"

"Sì. Solo mezz'ora di ritardo. Ma il viaggio è andato bene."

"Quando mi chiami?"

"Giulia, qui sono le sette di sera. Arrivo in albergo e provo a dormire, sono stanco. Ti chiamo domani, alla pausa pranzo. Più o meno all'una, se non faranno ritardo, e lì saranno le...sette di sera."

"Va bene. Mi manchi, tesoro."

"Anche tu. Un bacio alla piccolina."

Stefano si avvicinò con il suo trolley ad un bar, mangiò due hamburger. Poi prese un taxi, arrivò dopo un'ora in albergo, il Greenwich Hotel, e si buttò sul letto, giusto il tempo di togliersi la giacca.

Si soffermò con lo sguardo sulla bocchetta anticendio posizionata sul soffitto. Per un attimo gli sembrò una telecamera, e istintivamente si fece scudo con le mani. Solo un attimo, poi riprese il controllo e tirò fuori il portafoglio, e dal portafoglio un biglietto che riportava un nome: "Lq" 511 Lexington Ave, Manhattan, New York.

Si rialzò di scatto, fece una doccia, si vestì. Fece chiamare un taxi. In meno di mezz'ora giunse a destinazione. Nel pagare la corsa gli scivolavano i dollari tra le mani, erano impregnate di sudore.

Stefano fece la fila per l'ingresso, pagò ottanta dollari, e una volta entrato in sala, esibì ad un cameriere un foglio.

"Prego, di qua."

"Grazie."

Lo accompagnò in una saletta.

"Chiamo subito la signora."

Fece l'ingresso una donna. Sorrideva.

"Ciao, mi chiamo Brenda. Rilassati. E' la prima volta?"

"Sì."

"Come ti chiami?"

"Stefano."

La donna lo osservava, poi gli girò intorno.

"Faccio tutto io? Mi dai carta bianca?"

"Direi di...sì."

"Bene," sorrise ancora "sei un bell'uomo, ed hai dei lineamenti molto delicati."

"Grazie." Stefano deglutì rumorosamente.

"Spogliati, Stefano. Completamente. E poi sdraiati sul lettino."

Stefano fece come le aveva detto Brenda.

"Ci vorrà un bel po'. Ma vedrai..."

Passò un sacco di tempo con lamette, gel e crema. Dappertutto. Gli ripassò anche la barba, più volte. Poi lo fasciò in modo molto aderente sopra i fianchi, in modo da ottenere delle curve, delle dolci rientranze. Gli sistemò il reggiseno imbottito, una quarta misura, e le autoreggenti in pizzo. Anche le mutandine erano imbottite, in corrispondenza dei glutei.

Brenda aprì un armadio, scelse una parrucca nera, a caschetto stile anni venti, e dopo avergli fasciato i capelli corti, gliela adattò sulla testa. La pettinò. Poi una gonna a tubo nera, una maglia nera con strass, elasticizzata, pari collo. Un paio di scarpe décolletées di vernice nera con tacco. Orecchini a goccia dotati di clips, una collana di perle, un solo giro. Una pochette, anch'essa nera.

"Come vuoi farti chiamare stasera?"

"Vanessa."

"Vanessa, sei uno schianto. Siediti davanti allo specchio."

Un fard pesante per mascherare alcuni punti di barba indomiti, mascara, ombretto, rossetto di colore rosso cupo. Unghie finte, smalto.

"Ecco qua. Cammina avanti e indietro. Prova"

Stefano - o Vanessa - si guardò attentamente allo specchio. Si alzò, poi appoggiò una mano sul fianco destro. Poi girò incerto verso il fondo della stanza.

"Tieni su il sedere, Vanessa. E fai il passo più corto."

Camminò avanti e indietro per cinque minuti, pian piano il disagio si attenuava, infine si sciolse in un sorriso verso Brenda.

"Cara, sei splendida. Dico sul serio."

Vanessa sorrise ancora.

"I tuoi vestiti non te li tocca nessuno, Vanessa. Sono in questo armadio, tieni la chiave. I vestiti che hai indosso li butterai in quella cesta Puoi tornare entro le quattro del mattino."

Brenda dette un bacio leggero a Vanessa.

"Quanto ti devo?"

"Fanno duecentocinquanta dollari."

"A te."

"Buona serata, Vanessa."

Brenda porse una giacca di pelle a Vanessa, la aiutò a indossarla.

Vanessa attraversò il locale, si diresse verso l'ingresso. Alla cassa le dettero un pass.

Vanessa stava passeggiando per le strade di Manhattan a migliaia di chilometri da casa, dalla casa di Stefano.

Era autunno inoltrato, per fortuna non pioveva, sarebbe stato un disastro, pensò. Si strinse alla pochette e si guardava intorno, eccitata come una ragazza al ballo di fine anno.

Vanessa era attratta dalle metamorfosi, dai cieli che non sai se sia ancora notte o già mattina, dalle rane che crescono con le branchie e sviluppano in seguito i polmoni, dai bruchi poi farfalle, dai periodi di trasformazione come dall'infanzia all'adolescenza, dall'inverno alla primavera. Dai caratteri indecisi. Dai sessi che si tingono di tutto un po', come il suo. Ora sarebbe stata Vanessa, per le quattro ore a venire. Cercò di camminare in modo più naturale possibile, come Vanessa avrebbe potuto fare. Sì, era Vanessa, adesso. In tutto e per tutto, e pensava come Vanessa avrebbe pensato. Incrociò un uomo, lo osservò interessata, come una Vanessa più che disinvolta avrebbe fatto. Poi un poliziotto di quartiere, che giocherellava con il manganello.

Poi si immaginò dei particolari intimi. Vanessa a letto con un nero, un nero che camminava in direzione opposta alla sua, che per caso l'aveva sfiorata; lui non ci aveva fatto caso, ingobbito nel suo bomber, lei sì. Lo aveva osservato in mezzo ai pantaloni, aveva cercato di indovinare, di intuire. Poi si mise a guardare una vetrina, un vestito che era un amore, un amore per Vanessa.

Si fermò in un bar, neon azzurri elettrici, specchi, e pavimenti a specchio. C'era una fila di quattro giovani uomini seduti al bancone.

Vanessa si sedette accanto.

"One Manhattan, please". Vanessa si sarebbe bevuta Manhattan.

D'un fiato.

Gli uomini si girarono verso di lei.

Succeda ciò che deve succedere, pensò Vanessa.


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