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giovedì 9 aprile 2020

Pubblico e privato ai tempi del coronavirus

Molti sono i giorni insignificanti di un'intera vita: giorni senza eventi particolari, che fanno solo volume, in cui gli orari, i ritmi, persino gli sguardi sono assolutamente prevedibili.
Giorni in cui cambia solo l'età anagrafica degli uomini.
Giorni di lavori ordinari, di colloqui banali, di gesta anonime.
Giorni grigi.
E poi ci sono periodi in cui le vite prendono velocità, quando meno te l'aspetti, nel bene e nel male. Delle improvvise impennate, delle onde gigantesche che si ergono da una calma piatta.
Questi cambiamenti, più frequentemente, si verificano per un solo individuo - ad esempio una laurea, una malattia, una promozione, la morte di un familiare - o per due individui - un matrimonio, una separazione, un cambio di casa - e possono verificarsi anche per un gruppo di individui - la vittoria di un campionato, un premio produzione - che in genere hanno un interesse comune, possa essere uno svago o un lavoro, o lo stesso condominio.
Più raramente periodi di cambiamento si verificano per una comunità variegata di giovani e vecchi, ricchi e poveri, conservatori e progressisti. Come per esempio la chiusura di una grossa fabbrica.
Poi ci sono gli eventi epocali, ancora più infrequenti, che investono una vasta area, come un terremoto, uno tsunami, una guerra civile, una grave recessione economica. 
E infine - casi più unici che rari - una guerra mondiale; oppure una pandemia. Questi ultimi eventi stravolgono la vita, i ritmi di lavoro, le relazioni sociali, le condizioni di salute, le condizioni economiche di tutto il pianeta. Cambiano tutto, e anche il ritorno allo stato precedente delle cose diventa spesso difficile, o impossibile.
Se ripenso alla mia vita, fino ad una certa età ho pensato che certe cose succedessero, ma non a me. Agli altri. Finché non è morto mio padre, avevo diciassette anni - che in questi strani giorni di quarantena mi manca un po', anche se dopo quarantadue anni il dolore è tramutato in una nostalgia - e da quel momento ho capito che qualsiasi cosa del pianeta, bella o brutta, sarebbe potuta capitare a chiunque, compreso al sottoscritto.
Fino a quel momento gli accadimenti, quelli privati, erano stati abbastanza routinari. Quelli pubblici li vedevo alla televisione ed erano da me distanti,  a parte qualcosa che mi aveva sfiorato, solo sfiorato.
Il colera, per esempio. Mi trovavo in Sicilia, a Milazzo, alla fine di agosto 1973, e fu chiusa la balneazione sia in mare che in piscina, in tutta Italia. Del fatto che non si potessero mangiare cozze crude, non mi interessava niente, ma per i bagni, per quelli sì, ero incazzato nero. Inoltre sottoposero anche a me alla vaccinazione del colera, con un dolore molto forte al braccio e una forte nausea. Per giunta, in uno di quei giorni di settembre, visto che andai in bagno e avevo la diarrea, mi convinsi che avevo il colera, ed ero spacciato, salvo poi vedere nei giorni seguenti che non stavo morendo.
Le domeniche di austerity di fine 1973 e inizio 1974, evento per me piacevole: mi davano la possibilità di percorrere in bicicletta con maggiore libertà(senza automobili) la mia cittadina, era uno spasso. 
Il sequestro Moro, marzo-maggio 1978. Era il periodo di piena malattia di mio padre, che morì a novembre. C'erano i lunghi dibattiti in televisione su cosa fare, che mio padre seguiva con interesse, quando la malattia gli dava una tregua. Io segretamente, in cuor mio, invidiavo tutti coloro che sarebbero sopravvissuti a mio padre, compreso il povero Moro, perché pensavo che tutto quell'interessamento della nazione avrebbe portato alla sua salvezza, e purtroppo mi sbagliavo. Tra l'altro avevo 17 anni, e mi ricordo che anche a Piombino, quando si usciva, c'erano dei posti di blocco delle forze dell'ordine, che davano la sensazione di esserci un po' dentro, dentro l'avvenimento.
In seguito, con l'età e con una maggiore consapevolezza, comprendevo che le cose accadono, anche dall'altra parte del pianeta, e creano delle conseguenze, ma mi occorreva ancora un certo sforzo di immaginazione per pensarle al di là del giornale o del tubo catodico. Anche se partecipavo ad assemblee studentesche, anche se parlavo di politica con i miei amici.
Il terremoto dell'Irpinia, 23 novembre 1980. Ero al primo anno di università, cominciata da pochi giorni, a Firenze. Un mio caro amico che frequentava ingegneria a Pisa partì per partecipare ai soccorsi con altri studenti della facoltà. Fui tentato fino in fondo di partire, ma la mancanza di soldi e di tenda e attrezzature - ero a Firenze anche se era domenica, non ero rientrato a Piombino - mi fece desistere dal proposito. Con rammarico.
17 gennaio 1991, inizio della prima guerra del golfo. Il mio riflesso sul privato fu che chiamai la mattina lo studio dove sarei dovuto andare a lavorare, per dire che non mi sentivo bene. In realtà ero preoccupato per una guerra che vedeva partecipe anche l'Italia, non era mai accaduto nella mia vita, e decisi di rimanere a casa per vedere gli sviluppi di quell'inizio.
Ricordo nel  settembre 1992 la grave crisi finanziaria e il prelievo forzoso dai conti correnti, compreso il mio, nel quale c'era ben poca cosa, per cui il  6 per mille di ben poca cosa fa pochissimo, ma mi impressionò vedere che un discorso alla tv della sera prima di Amato aveva prodotto un improvviso impoverimento degli italiani - compreso il sottoscritto - la mattina seguente.
11 settembre 2001, attacco alle torri gemelle. A parte il grande impatto emotivo, il mio sincero dispiacere per quei tremila morti, e la paura di una guerra planetaria, il risvolto pratico della tragedia fu che da quel giorno il modo di viaggiare in aereo cambiò radicalmente, e mi ci dovetti abituare.
Ovviamente le commistioni tra pubblico e privato, se ci penso bene, non si esauriscono in questi soli momenti, però sto parlando di fatti pubblici con conseguenze pratiche quasi immediate ed evidenti, che toccavo con mano, come se gli avvenimenti della tv refluissero rapidamente nella mia vita privata, anche se marginalmente.
10 marzo 2020.  E' sera, vedo Conte in televisione, dice che l'Italia è investita da questa grave epidemia, e a causa di questa si devono adottare misure eccezionali. Il giorno dopo non posso andare a lavorare, a correre, andare in bicicletta, devo viaggiare con l'autocertificazione per casi urgenti del mio lavoro, non posso baciare, abbracciare, stringere la mano, anzi devo stare a un metro di distanza dalle persone e devo sperare di non beccarmi questa malattia, da un mese non guadagno, e non so come andrà a finire, e anche in un ritorno alla normalità, probabilmente niente sarà come prima, almeno per un anno. 
Il pubblico e il privato, in questo caso, si sono intrecciati in modo quasi asfissiante. E' come se Conte non avesse parlato alla nazione, ma a me. 
A me.
Tutto ciò che ha detto, in quella sera di marzo, si è riversato prepotentemente nel flusso della mia vita.








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