Qui sotto c'è, secondo la mia modesta opinione, uno dei più bei racconti scritti in Italia da vent'anni a questa parte. Avrei voluto scriverlo io.
Romolo Bugaro
Progetti per una visita a mia moglie
La
targhetta sul campanello sarà sempre la stessa, G. Ambrosi – F. Berti. Troverò
strano non sia stata ancora tolta di mezzo. Come se negli ultimi tempi non
fosse successo niente di particolare, alla fine. Suonerò al campanello di sotto
e la luce del videocitofono si accenderà con un minuscolo clic, bianca e concentrata. Mi preparerò a dire qualcosa guardando
verso la telecamera, ma non servirà. Il portone si aprirà quasi subito, senza
che nessuno chieda chi è. Magari non capirò bene il motivo, ma quel silenzio mi
sembrerà già un brutto inizio. Un piccolo torto. Una specie di sgambetto prima
ancora di cominciare.
L’atrio del palazzo sarà esattamente come
ricordo: ampio, elegante, con le mezze colonne in rilievo sui lati.
Darò
un’occhiata
alle cassette della posta, scorgerò la cabina luminosa dell’ascensore sul fondo. Salendo verso il nostro piano, per un
attimo mi verrà
la tentazione di piantare tutto e scappare via. Basterebbe fermare l’ascensore, entrare di nuovo in
macchina e ripartire. Potrei farlo, se davvero volessi. Ma sarà solo un impulso passeggero, semplice
da superare. So come sono fatto: nel giro di cinque minuti sarei pentito di
sicuro.
L’idea
di quell’appartamento
in fondo al giroscale mi farà
un certo effetto, dopo tanti mesi d’assenza. Mia moglie sarà in piedi davanti alla porta, le mani infilate nelle tasche
del golf. Non avrà
nessuna espressione particolare, né farà
l’atto
di venirmi incontro. Piuttosto ci sarà un istante di incertezza, fra noi, che subito danneggerà i miei gesti. A quel punto le andrò vicino senza parlare, leggermente
rigido sulle gambe. Dovrò
cercare di calibrare bene ogni atto, camminare verso lei non troppo piano né troppo veloce. Finalmente, mia moglie
tirerà
fuori le mani di tasca e sarà
la prima a parlare. «Ciao», dirà. «Sei
molto puntuale».
L’interno
non mi sembrerà
cambiato granché
rispetto a prima, e i mobili saranno rimasti più o meno gli stessi, e i quadri, e i tappeti, e le fioriere
in ingresso. Probabilmente mi guarderò attorno con la sensazione di essere tornato in un paesaggio
di puri ricordi, più
che in un luogo reale. Magari mi verrà pure la voglia di dirglielo, per farle capire quanto mi
sento distante da tutto, ormai, ma alla fine non aprirò bocca.
Lei mi farà
accomodare in salotto e accenderà
l’abat-jour
che ci ha regalato sua madre. Poi socchiuderà la finestra che dà sul balcone, ma senza un motivo vero: come proseguisse nei
gesti per ostentare la propria confidenza con l’ambiente, portare subito anche le cose dalla sua parte. Alla
fine siederà
su una delle poltroncine vicino allo stereo, accavallerà la gambe e non chiederà se voglio qualcosa da bere, o una
sigaretta, magari. Non farà
nessun tentativo per rompere il ghiaccio con qualche frase di circostanza. Si
limiterà
a sfilare gli occhiali dal viso, prima di cominciare a dire la sua.
Sì,
non avrà
nessuna intenzione di farmi perdere tempo, verrà subito al punto. Spiegherà che la settimana precedente ha compilato una lista segnando
tutti i mobili che mi deve restituire. Sarà solo un promemoria non definitivo, comunque, e se qualcosa
non dovesse andar bene lei sarà
disponibilissima a discuterne subito. Spiegherà d’aver
aspettato inutilmente mi facessi vivo per riprendere quel che avevo lasciato lì in casa, ma siccome non è successo, ha deciso di anticiparmi.
Determinate questioni non possono restare in sospeso all’infinito, su questo sarò d’accordo anch’io,
sosterrà.
«Molto
meglio affrontarle subito, certe seccature», dirà.
«Per
il bene di entrambi».
Innanzitutto, vorrà restituirmi i mobili dello studio: la credenza cinese, la
scrivania in noce, la vecchia Frau anni Sessanta. Quei mobili vengono da casa
mia, quindi è
normale che io li riprenda. Avrà
già
controllato i cassetti della credenza, portato via le sue carte, e a quel punto
i facchini potrebbero venire su anche l’indomani e imballare ogni cosa. Non sarà neppure necessario che io torni lì a controllare il lavoro: lei avrà già preso un paio di giorni di vacanza, per occuparsi dei
dettagli.
«Mi
sono abituata a pensare e fare da sola», dirà.
«Davvero,
non c’è
nessun bisogno che ti disturbi».
Per quanto riguarda il salotto, avrà già stabilito di lasciarmi la cassapanca nera e il divano di
pelle –
quello grande, naturalmente –
tenendo per sé
tavolo da pranzo, trumeau e vetrinette Ottocento. In realtà il tavolo è un regalo di matrimonio, quindi
anche mio, ma dal suo punto di vista la divisione sarà equa così, perché il divano è
praticamente nuovo, mentre le vetrinette, soltanto di restauratore, le
costeranno non meno di due milioni. Ne avrà già
parlato con il restauratore. Avrà
lì
il preventivo da farmi vedere.
Poi passerà
alla questione dei quadri. Vorrà
restituirmi anche quelli, ovvio. E le stampe in ingresso, e il Novatti, e i due
paesaggi inglesi Ottocento. Materialmente non avrà ancora toccato nulla, i miei quadri li ritroverò al loro posto. Però un paio di settimane prima sarà stata in un negozio di Piazza Cavour
e avrà
acquistato una decina di poster, tanto per rimpiazzare ciò che porterò via. La conosco. So com’è fatta. «Non sarà
la stessa cosa»,
dirà,
«ma
non mi andava l’idea
di ritrovarmi con i muri di casa a quel modo».
Cercherà
di controllare le mie reazioni, a quel punto. Ma io mi sforzerò di non mostrarne nessuna. Starò lì, seduto sul divano ad ascoltarla parlare, nient’altro. Da qualche parte, giù in strada, si sentirà un traffico d’auto, qualche ragazzetto in
motocicletta che filando veloce farà vibrare per pochi secondi i vetri delle finestre.
Alla fine vorrà discutere con me di altri pochi particolari: la cucina, ad
esempio. Secondo lei dovremo decidere insieme, perché non avrebbe senso dividerla. D’altra parte, un problema del genere
verrà
fuori anche per l’armadio
a muro della camera da letto e il resto di cose che non è comunque possibile dividere, o le cui
misure non si adatterebbero a nessun altro ambiente. Lei sa benissimo che darmi
indietro quattro mobili non equivarrà a restituirmi tutto ciò che in quella casa è anche mio, pagato in parte da me. Tuttavia, ho pur abitato
sei anni là
dentro senza pagare una sola lira di affitto, e questo entrerà in ogni caso a far parte del conto.
Non aggiungerà
altro, sul punto. Tutto sarà
già
definito. Così,
quando mi pregherà
di portare con me la lista che ha preparato, di controllarla e di rifletterci,
quando si alzerà
dalla sua poltroncina rimettendo gli occhiali, saprò che la mia visita è da ritenersi conclusa. Semplicemente.
Io potrò
solo andar via.
Poi, all’ultimo
momento mi troverò
fermo a metà
ingresso con la sua inutile lista in mano – lei che dice «Ti ringrazio di essere venuto, cerca di star bene, aspetto
una tua telefonata entro il mese»,
–
e farò
cenno di sì
con la testa, dirò
a bassa voce «Entro
il mese, d’accordo».
Un istante più
tardi sarò
già
in pianerottolo, e lei farà
un sorriso generico, un gesto qualsiasi di commiato, e probabilmente vorrà chiudere subito la porta, rintanarsi
in fretta. Ma non potrà
farlo, perché
io resterò
a guardarla da fuori, immobile sul giroscale. Lei allora mi squadrerà incredula, poi impercettibilmente
guastata d’ansia,
e nello stesso tempo si irrigidirà.
Si preparerà ad affrontarmi qualsiasi cosa io
decida di fare.