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domenica 4 novembre 2012

Fate finta che sia una finzione






Fate finta che sia una finzione

Io non ci credevo.
Non aveva mai avuto un malanno, a parte quel giorno in cui rimase a letto con la febbre, che già mi turbò assai. Avevo sette anni e stavo per andare a scuola. La maestra quella mattina - dopo i conticini, assai impegnativi per la verità - ci fece fare un disegno a piacere. Mi misi a disegnare un uomo in un letto.
"Chi è, Toni, questa persona?"
"E' il mio papà, maestra." Mi vennero le lacrime agli occhi. "Ha la febbre."
La maestra mi prese in braccio e mi carezzò un po'. "Tante persone hanno l'influenza in questo periodo, stai tranquillo, forse domani sarà già guarito."
Mi vergognai un po' della figura da deficiente che avevo fatto, sapevo bene cosa volesse dire influenza, avevo visto mio fratello a letto e anche le mie sorelle. Ma non potevo spiegare alla maestra che per me il mio babbo era un supereroe come Zorro, che vedevo alla Tv dei ragazzi alle 17,45 sul primo canale con una fettona di pane e pomodoro in mano. Il mio babbo aveva i baffi, proprio come Zorro. Ma mai che avessi visto un episodio dal titolo: "Zorro ha la febbre". Ci pensate? Bernardo che porta una minestrina calda a Zorro, e magari lo imbocca anche? No, maestra, Zorro non si ammala mai. Il mio papà sì.

Un paio di mesi dopo stavo passeggiando con lui in Corso Italia, a Piombino e, arrivati in Piazza Verdi, vidi il cartellone del nuovo film del Metropolitan: "2001 odissea nello spazio".
"Papà, ma tu ci sarai nel 2001?"
Rise e continuò a camminare.
"Non lo so...fammi pensare. In quell'anno dovrei avere..."
Lo guardai con attenzione, ero concentrato sulle sue labbra.
"...settantotto anni. E' un'età avanzata..."
Non sapevo cosa avrebbe aggiunto.
"...ma molte persone arrivano a quell'età: il nonno, la nonna ci sono arrivati. Ma sì, credo proprio che ci sarò. Ci sarò."
E sorrise stringendomi ancora più forte la mano.
Quelle parole mi rinfrancarono moltissimo. Ci sarebbe stato. Mio padre non prometteva mai a vuoto. Mio padre diceva sempre la verità. E del resto, per altri nove anni ancora, tutto lo avrebbe fatto pensare. Non si sarebbe più ammalato, nemmeno un raffreddore.
Fino a quella sera.

Ero appena tornato dal campo invernale scout, il trenta dicembre millenovecentosettantasette. C'erano due amici dei miei genitori, a cena. Dopo il secondo - bracioline di manzo con contorno di patate - mio padre chiuse gli occhi, si prese la testa tra le mani, ebbe giusto il tempo di dire "Scusate" e si precipitò in bagno. I signori Nardi, sollecitati con discrezione da mia madre, andarono via in gran fretta.
- Se possiamo fare qualcosa...
- Grazie, Ugo. Vi farò sapere.- rispose la mamma, poi corse in bagno. E io dietro a lei.
Non ci credevo.
Vidi il mio supereroe davanti allo specchio, aggrappato al lavabo, la testa piegata giù, gli occhi chiusi. Si voltò di scatto verso il cesso e cominciò a vomitare. Vomitò il manzo, le patate, la pasta. Vomitò anche altra roba, verde e gialla, e continuò a vomitare per molte ore. Lo guardavo andare avanti e indietro, dalla camera al bagno. Poi mi prese la stanchezza e lo abbandonai. Mi addormentai, cazzo.

Apro una parentesi: il ventotto maggio duemilacinque, dopo aver lavorato tutto il pomeriggio con trenta gradi in studio, dopo aver mangiato una pizza con salamino piccante e mozzarella di bufala in compagnia di mia moglie, dei miei figli e di amici vari, dopo una passeggiatina sul mare con fresco vento di maestrale, sono andato a letto. Verso le tre mi sono svegliato in preda a dolori lancinanti all'addome e sono corso in bagno. Ho cominciato a sudare freddo, mi sono sistemato sul cesso nella speranza di fare qualcosa. Mi girava la testa, il dolore all'addome migrava da una parte all'altra, migrava così velocemente che la mia autodiagnosi variava di continuo tra ischemia o infarto del miocardio, ulcera perforante, pancreatite acuta o congestione. Dopo mezz'ora l'ultima ipotesi si rivelò quella esatta. Mi piegai con la testa sul cesso e cominciai a vomitare il pomodoro, la birra, la mozzarella e il salame piccante; nello stesso momento ebbi un attacco di diarrea, che feci sul pavimento. Non credevo che si potessero fare le due cose contemporaneamente. Durante i conati - che arrivarono ad ondate nei venti minuti successivi - non potevo fare a meno di urlare.
"Toni, che sta succedendo?"
"Laura non mi sento bene" risposi con la bocca impastata di salame ed acido cloridrico " ma va meglio; torna a letto, devo pulire..."
"Sicuro che..."
Mi prese un altro attacco, per fortuna avevo chiuso la porta a chiave, non volevo farmi vedere da Laura in quello stato.
"Stai tranquilla" ebbi la forza di dire “sto meglio. Vai a letto.”
Pian piano mi ristabilii, mi rimase addosso solo una forte debolezza; mi misi a pulire in terra, nel water e mi lavai. In quei venti minuti pensai a mio padre, a quanto dev'essere dura vomitare un'intera notte, a quanto dev'essere avvilente e degradante. Chiudo la parentesi.

La mattina seguente mi sembrò che il malessere di mio padre fosse stato solo un incubo, niente di più di un incubo. Aveva il viso stanco, ma si era fatto la barba; pettinato e profumato di Acqua Velva William uscì. Sapevo che non era indistruttibile, l'avevo già imparato, ma quel suo aspetto mi sollevò. Durante la cena si diffuse un sollievo generalizzato: il dottore aveva diagnosticato una severa artrosi cervicale - colpa delle varie nottate in servizio in Calabria, periodo in cui ricevette, da vero supereroe, tre encomi solenni per la lotta al brigantaggio - una malattia curabile, dunque. E quella sera si mise a narrare – perché come molti siciliani aveva il dono innato della narrazione post-prandiale; oh, se sapeva raccontare, davanti a una sigaretta e molliche di pane sparse per il tavolo! – si mise a narrare, dicevo, di varie brutte nottate. Il ricordo della sera precedente fu spazzato via da quei ricordi. Fu un lieto fine millenovecentosettantasette. L'anno nuovo fu inaugurato all'insegna di antinfiammatori, antidolorifici e tanta fiducia.
Ma dopo l'epifania ricominciò il vomito e un mal di testa che gli fece stringere gli occhi e sussurrare parole di rabbia, e bestemmie.

Dopo un giorno e una notte intera di vomito - che roba era? e quanti liquidi multicolori abbiamo dentro di noi? - i fidanzati delle mie due sorelle lo portarono all'ospedale di Pisa.
Mio padre all'ospedale.
Non ci credevo.
Non ci credetti per undici mesi. Avevo dalla mia parte quella promessa solenne, una promessa carica di verità; ma di tanto in tanto temevo per il destino del mio supereroe. E quanto a verità, tutta la famiglia si impegnò a sparare un sacco di balle a mio padre per nascondergli la gravità del suo male. Inventarono un ematoma polmonare, artrosi degenerativa e cazzate simili.
Il mio supereroe pian piano perse l'uso delle gambe perché quella cosa stava comprimendo e divorando i centri motori nella testa.

Respirava sempre peggio - faceva uso per alcune ore al giorno della bombola di ossigeno - perché quella cosa si stava mangiando anche un polmone.
Quella cosa nel cervello e nei polmoni faceva anche altri scherzi, a seconda di quanto e dove comprimeva: mal di testa di durata variabile, vomito, singhiozzo - uno dei quali durò più di due giorni -, brusche alterazioni dell'umore con passaggi repentini dal pianto al riso, attacchi epilettici, demenza. Una volta non riusciva a capire che le immagini del televisore non si trovassero in sala, ma in uno studio televisivo. Poi gli scherzetti se ne andavano e tornava mio padre, sempre più insicuro e tremante, con dentro quella cosa.
Si arrivò al mattino del dieci novembre millenovecentosettantotto.
Vidi mio padre baciare mia madre.
"Auguri"
"Per cosa?"
"Per il tuo compleanno"
"Ma è domani"
"Magari domani non sto bene e allora...auguri, buon compleanno."
Quella sera lo vidi lamentarsi tenendosi la testa, e il dolore continuò la notte, la mattina, il pomeriggio, la sera, la notte, la mattina, il pomeriggio... Il dodici novembre millenovecentosettantotto, alle sette e dieci di sera, mio padre ci lasciò.
Il primo gennaio duemilauno pensai con rabbia che mio padre non mi aveva detto la verità. Non aveva mantenuto la promessa. Ma devo ammettere che ce l'aveva messa tutta.

Io sono nato il sei maggio millenovecentosessantuno. E' stato venduto un vecchio rudere lasciato da mia nonna a mio padre. Mia madre ha rinunciato alla sua parte e noi quattro figli abbiamo diviso in quattro parti uguali. Per il mio quarantaquattresimo compleanno, con quei soldi, ho comprato una bicicletta da corsa, bellissima: ruote e forcelle in carbonio, telaio in alluminio, una specie di piuma con i pedali. L'ho comprata pensando a lui, il mio supereroe, che vinse un campionato regionale siciliano di ciclismo. Ogni tanto, quando scendo giù a Milazzo, qualche suo vecchio amico o qualche zio mi racconta di averlo visto in gara e mi giura - in Sicilia si giura di continuo - che vederlo correre fosse un gran bello spettacolo. Dal giorno del mio quarantaquattresimo compleanno, il giovedì prendo la bici e salgo i mille metri del Monte Serra, che divide Lucca da Pisa, vicino a casa mia.
Parto la mattina verso le sei e mezzo, mi occorre una mezz'ora di bici per arrivare alla base della salita.
Non passa mai un'anima in quella strada. C'è solo il bosco - lecci e castagni, perlopiù - un ruscello e la strada.
Mi fermo ad una fontanella.
Bevo.
Rimonto in bici.
E vado su... su... su... fra le antenne e gli aquiloni.
 

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