Montecarlo(LU) è per me una buona risorsa. Quando ho poco tempo a disposizione, posso prendere la bici, raggiungere la sommità di questa collina e tornare a casa in un'ora circa. Il che contraddice uno dei luoghi comuni più diffusi sulla bicicletta. Che sia un diffuso luogo comune, potete provarlo di persona. Vi trovate all'aperitivo figaccione del sabato sera ed avete già affermato: "Venezia è bella ma non ci vivrei" e "I neri hanno il ritmo nel sangue". Non avete altri argomenti, è una serata in cui avete un QI di un pesce rosso nemmeno troppo sveglio, allora è il momento. Fate un collegamento con la tappa del Tour de France del giorno e poi esclamate perentoriamente: "Per una uscita in bici ci vogliono almeno tre ore", e avrete il plauso di quasi tutti, mentre state amabilmente sorseggiando il vostro spritz. Anche la bionda che state cercando di conquistare annuirà compiaciuta. Evvai.
Ma. Se mi trovo nei paraggi, vi rovinerò la festa. Produrrò l'elenco di una serie di uscite in bici da un'ora dense di soddisfazioni, potrò mostrare le foto del mio telefono scattate dalla sommità di Montecarlo, e potrò anche raccontare una interessante ed emozionante storia verificatasi proprio al ritorno da una di queste gite lampo. E la bionda si girerà verso di me, dimenticandosi della vostra esistenza.
Questa è la storia. Avevo ancora sulle spalle la mia ora di bici, Montecarlo e ritorno. Un'ora rilassante, con una salita in mezzo alle colline lucchesi tappezzate, per il primo tratto, dal verde bottiglia degli olivi e, per il resto, da un frondoso bosco di lecci. Con il raggiungimento del borgo medievale di Montecarlo, appollaiato sulla collina, castello compreso, da dove si scorge l'Abetone, le Apuane, Lucca, Pescia. Poi discesa a capofitto, ed il veloce rientro dopo una decina di chilometri di pianura. Il caldo ancora non mordeva le gambe, erano le otto. Insomma, avevo alle spalle una sola ora di bici, ma mi rallegravo delle belle cose che si possono fare e vedere in così poco tempo.
Un paio di curve prima di raggiungere il cancello di casa, e intravedo una chiazza nera sul ciglio della strada.
Mi sale l'inquietudine. Mi fermo, torno indietro. E' un gatto. Un rigo di sangue dalla bocca. Gli occhi sbarrati. E' la mia gatta. Nerina. Scendo dalla bici. E' ancora calda, ma rigida, sembra imbalsamata. Mi assale la disperazione. E' nera, è femmina. Sì, è lei. La prendo tra le mani, effetto flou agli occhi. Mi si è fermato il mondo. "Era la mia gatta", dico ad una signora che si è fermata con la macchina. "Mi spiace", sussurra, e riparte. Pronuncio Nerina più volte, poi attraverso la strada. Di là dal fosso, un campo incolto. In una rientranza del terreno vi adagio il corpicino, ci metto delle frasche sopra. Non voglio che i miei figli la vedano per sbaglio. Forse è meglio pensare che se ne sia andata, che abbia perso la strada, ma che sia viva. O forse no, è meglio che dica loro la verità. Per tutta la mattina, durante le ore di lavoro, mi arrovello sul da farsi. Dirlo, non dirlo, dire una bugia...Per tutta la mattina, penso alle gioie che ci ha dato la nostra gatta, le carezze e le coccole che lei desiderava sempre, gliene avrei dovute fare di più, all'illusione che ci eravamo creati sulla sua presuntà abilità di attraversare la strada, alla volta in cui l'ho recuperata con una scala di cinque metri dal terrazzo di una vicina casa in costruzione. Al fatto che lei ha attraversato la strada, ha superato una soglia e non potrà tornare indietro. Uffa, ho il groppo alla gola.
Arrivo a casa con il cuore gonfio e ruvido. Dico qualche parola a pranzo, poi decido per la verità, ma non ho il coraggio di arrivare direttamente al punto come un treno superveloce. Parto, sbuffando come una locomotiva a vapore: "Avete visto Nerina stamani?"
"Sì" dice Elena.
"L'hai vista?" e nello stesso tempo mi domando come faccia, se l'ha vista, a mangiare la pasta al ragù con tanta serenità.
"L'ho vista anch'io", fa Filippo. Lo seguo con gli occhi, anche lui mangia, io non mangio più. "L'avete vista...là fuori?" e sto arrivando alla conclusione di aver generato dei mostri.
"E' in mansarda, sulla poltrona", dice Elena.
Mi alzo rumorosamente, e corro verso le scale che portano in mansarda. Si saranno sbagliati, penso. Sarà stato ieri mattina. Ma intanto spero di essere stato pazzo.
E' lì, sulla poltrona. "Nerina!"
E' Lazzaro, ma non ha le bende. E' calda, morbida, fa le fusa. E' Nerina. L'accarezzo, la strapazzo, finché lei si intimorisce e fa di tutto per divincolarsi dalla mia stretta. Poi mi viene il dubbio che non sia Nerina, guardo se è sterilizzata. Sì. Se ha un canino spezzato. Sì. E la ristringo a me. Nerina sembra averne abbastanza, e scende.
E io sto esultando per la morte di un gatto a me sconosciuto. Se mi avessero chiesto la morte di tre gatti neri in favore della vita di Nerina, mi rendo conto che probabilmente, nel profondo inconfessabile del mio inconscio non politically correct, avrei accettato. Poi mi viene la macabra curiosità di ritornare a vedere il cadavere, quasi quasi ho paura che non ci sia nessuna gatta morta e che sia avvenuto un miracolo.
Mi viene la curiosità, ma poi mi passa.
E ricomincio ad accarezzare Nerina.
A quel punto la bionda è ai miei piedi, e sta facendo la gatta morta.