Un uomo solo al comando. Sta correndo a Roma la maratona di San Silvestro, è al ventiquattresimo chilometro ed ha un vantaggio di circa due minuti sul secondo. Accanto a lui l'auto della Rai regione Lazio con tanto di telecronista che cerca di capire chi sia questo Carneade. Scartabella l'elenco iscritti, ma i diecimila nomi di un tabulato ripiegato male sono troppi; alla fine desiste, si sporge dal finestrino e lo chiede al corridore."La Malfa", risponde intimorito e in affanno l'uomo solo al comando.
Non è un sogno post-peperonata, no, e nemmeno la variante di un racconto di Murakami Haruki sulla corsa. E' andata proprio così, cari lettori. Ma forse è meglio fare qualche passo indietro.
Siamo a dicembre 1979, anzi no, meglio fare qualche passo ancora più indietro: settembre 1979, la fine delle vacanze estive dopo la quarta liceo. Un dopocena a casa mia, il mio allenatore Paolo ed io stiamo facendo il programma di allenamenti, obiettivi e gare per l'anno a venire. Il campionato italiano juniores di Maratonina a giugno è il principale impegno, tutti d'accordo. Ma non sarebbe male, aggiunge Paolo, verificare la tua tenuta long-endurance, spostare un po' i tuoi orizzonti della tua resistenza aerobica.
Quando Paolo fa dei discorsi fumosi con qualche parola inglese, capisco che non ha il coraggio di esprimere con decisione una sua proposta; sta girando intorno ad un'idea folle che necessita di un apripista. E infatti.
"Che vuoi dire, Paolo?"
"Alla fine di dicembre", si schiarisce la voce "che ne diresti di una maratona?".
"Paolo, ho solo diciott'anni. Non è nemmeno nel calendario ufficiale delle gare Juniores."
In realtà la discussione non dura gran che, visto che l'idea romantica di una maratona stava già dentro me da quando avevo studiato di Filippide e della sua folle corsa verso Atene. Da settembre a dicembre faccio il pieno di chilometri di allenamento con cui avrei potuto, da casa mia, raggiungere agevolmente le colonne d'Ercole, ma non vivo quest'esperienza come se stessi per affrontare una delle sue dodici fatiche. No. Il lungo lento mi permette di uscire, di correre due ore, due ore e mezzo con vista mare, in mezzo a pini e macchia mediterranea. Mi piace. Le ripetute in pista e le salite, un po' meno. Ma Filippide, vuoi mettere...
Domenica 30 dicembre 1979, piazza San Pietro, ore 9,30. Hanno annunciato che il nuovo papa Karol WoJtyla, un papa con precedenti sportivi, si affaccerà per dare la benedizione ai partenti della maratona. Fumata nera, è indisposto, ci viene letto un suo messaggio di augurio. Alle dieci i dieci-mila concorrenti, compreso il sottoscritto, partono al colpo di pistola. C'è una pioggerella fitta e insistente che bagna tutti, compresi i sampietrini che diventano viscidi. Pazienza. Paolo è in sella ad un motorino dalle ruote minuscole, ma mi perde alla partenza, si perde tra la folla. Visto che è più o meno un anello di ventuno chilometri da ripetere due volte, mi ribeccherà al secondo giro. Sto bene, le gambe girano a dovere, mi metto in un gruppetto di corridori, rimango con loro, senza avere la minima cognizione su quanto stia andando. Sono leggero, i saliscendi dei sette colli non mi turbano più di tanto. In prossimità delle terme di Caracalla, un consistente gruppetto devia verso il primo traguardo, quello dei dieci chilometri. Rimangono in gara i partecipanti per i ventidue chilometri e per la maratona. Ogni tanto una fila di automobili bloccata dai vigili con relativi automobilisti inscena un concertone di clacson per il blocco del traffico. Continuo ad avere positive sensazioni, ma non riesco a capire se il mio ritmo di corsa sia adeguato alla distanza da percorrere. Ogni cartello chilometrico che passo è comunque un sollievo. Verso il ventesimo chilometro sono in un gruppetto di sei-sette corridori. Mi giro verso uno e chiedo: "Fai la ventidue o la maratona?" "La ventidue."
Mi giro verso un altro: "Tu?" "Ventidue. Perché, tu quale faresti?"
"La maratona."
Il tipo prende un po' di fiato e urla:"Ahò, c'è sto gajardo che corre la maratona!"
Un paio di corridori ride, qualcun altro mi guarda come se avessi la lebbra. Io abbasso lo sguardo. Dopo un po' prendono la deviazione per Piazza san Pietro. Mi ritrovo solo, nessuno davanti, la gente che mi applaude. E a quel punto sono sicuro di aver sbagliato tutto. Rallento un pochino il passo, ma temo che sia troppo tardi per riprogrammare la corsa.
Al chilometro ventiquattro mi raggiunge l'auto della Rai, che stava con quelli che erroneamente riteneva i primi, due minuti dietro me. Al venticinquesimo il motorino di Paolo che mi affianca. "Sei andato a tre e venti a chilometro, forse un po' veloce..." "Già." Ora un gruppo di cinque mi raggiunge, ho ancora da fare quattordici chilometri e spero di arrivare in fondo.
Al chilometro trenta, la salita di Villa Borghese, e bummm! Salto per aria. Ho le gambe molli, pesanti, rallento il passo, vedo i primi che si allontanano.
Paolo mi urla: "Dai, forza, entra con le anche, finisci le spinte, dai!"
Entriamo in un lungo sottopassaggio, il rumore del motorino di Paolo accanto a me rimbomba sulle pareti in cemento, insieme allo scalpiccio dei miei passi che strascicano sull'asfalto. Sono in grande affanno. Altri corridori mi superano.
Dopo qualche centinaio di metri incalza Paolo: "Muovi le braccia, solleva di p-"
"Paolo finiscila, mi hai rotto i coglioni!" Il mio urlo esasperato è efficace, finalmente il silenzio, fino alla fine.
Va sempre peggio, gli ultimi chilometri sono un calvario. Nell'ultimo tratto ci sono dei corridori che stanno finendo i loro 22 chilometri e stanno andando al mio stesso passo. Sto correndo a più di quattro e trenta al chilometro. Finalmente il cupolone di Piazza San Pietro sullo sfondo, mancano tre chilometri. Ho sete, ma non ci sono rifornimenti(nel 1979 non usava avere punti di ristoro ogni 5 chilometri, ce ne saranno stati tre in tutto). Una sofferenza infinita, finalmente in Piazza San Pietro. Ma non finisce qui, anche se sono arrivato. Ho imboccato, forse per la vista annebbiata, la corsia dell'arrivo dei ventidue chilometri. Non risulto nell'ordine di arrivo della maratona. Paolo si precipita al tavolo della giuria, sta cercando di convincerli che io ho fatto effettivamente la maratona. Basterebbe guardarmi. Nel frattempo cerco di prendere un bicchiere di té. Per prenderne uno ne rovescio sei, la signora del ristoro a metà tra il compassionevole e l'incazzato. Dopo dieci minuti arriva Paolo, mi comunica che è riuscito ad inserirmi con il tempo effettivamente fatto, nella classifica della maratona. Menomale. Ho terminato in due ore, trentacinque minuti e trentacinque secondi al decimo posto assoluto. La corsa più faticosa della mia vita, corsa in modo sgangherato, assurdo, da aspirante suicida. Eppure col passare degli anni le immagini delle vie romane, della gente, della pioggia, si ammantano di nostalgia e di piacere. Fino a qualche giorno fa, quando ho rivisto a casa di mia madre il diplomino di partecipazione. Un pezzo di carta che ha scoperchiato i miei ricordi.
Non è un sogno post-peperonata, no, e nemmeno la variante di un racconto di Murakami Haruki sulla corsa. E' andata proprio così, cari lettori. Ma forse è meglio fare qualche passo indietro.
Siamo a dicembre 1979, anzi no, meglio fare qualche passo ancora più indietro: settembre 1979, la fine delle vacanze estive dopo la quarta liceo. Un dopocena a casa mia, il mio allenatore Paolo ed io stiamo facendo il programma di allenamenti, obiettivi e gare per l'anno a venire. Il campionato italiano juniores di Maratonina a giugno è il principale impegno, tutti d'accordo. Ma non sarebbe male, aggiunge Paolo, verificare la tua tenuta long-endurance, spostare un po' i tuoi orizzonti della tua resistenza aerobica.
Quando Paolo fa dei discorsi fumosi con qualche parola inglese, capisco che non ha il coraggio di esprimere con decisione una sua proposta; sta girando intorno ad un'idea folle che necessita di un apripista. E infatti.
"Che vuoi dire, Paolo?"
"Alla fine di dicembre", si schiarisce la voce "che ne diresti di una maratona?".
"Paolo, ho solo diciott'anni. Non è nemmeno nel calendario ufficiale delle gare Juniores."
In realtà la discussione non dura gran che, visto che l'idea romantica di una maratona stava già dentro me da quando avevo studiato di Filippide e della sua folle corsa verso Atene. Da settembre a dicembre faccio il pieno di chilometri di allenamento con cui avrei potuto, da casa mia, raggiungere agevolmente le colonne d'Ercole, ma non vivo quest'esperienza come se stessi per affrontare una delle sue dodici fatiche. No. Il lungo lento mi permette di uscire, di correre due ore, due ore e mezzo con vista mare, in mezzo a pini e macchia mediterranea. Mi piace. Le ripetute in pista e le salite, un po' meno. Ma Filippide, vuoi mettere...
Domenica 30 dicembre 1979, piazza San Pietro, ore 9,30. Hanno annunciato che il nuovo papa Karol WoJtyla, un papa con precedenti sportivi, si affaccerà per dare la benedizione ai partenti della maratona. Fumata nera, è indisposto, ci viene letto un suo messaggio di augurio. Alle dieci i dieci-mila concorrenti, compreso il sottoscritto, partono al colpo di pistola. C'è una pioggerella fitta e insistente che bagna tutti, compresi i sampietrini che diventano viscidi. Pazienza. Paolo è in sella ad un motorino dalle ruote minuscole, ma mi perde alla partenza, si perde tra la folla. Visto che è più o meno un anello di ventuno chilometri da ripetere due volte, mi ribeccherà al secondo giro. Sto bene, le gambe girano a dovere, mi metto in un gruppetto di corridori, rimango con loro, senza avere la minima cognizione su quanto stia andando. Sono leggero, i saliscendi dei sette colli non mi turbano più di tanto. In prossimità delle terme di Caracalla, un consistente gruppetto devia verso il primo traguardo, quello dei dieci chilometri. Rimangono in gara i partecipanti per i ventidue chilometri e per la maratona. Ogni tanto una fila di automobili bloccata dai vigili con relativi automobilisti inscena un concertone di clacson per il blocco del traffico. Continuo ad avere positive sensazioni, ma non riesco a capire se il mio ritmo di corsa sia adeguato alla distanza da percorrere. Ogni cartello chilometrico che passo è comunque un sollievo. Verso il ventesimo chilometro sono in un gruppetto di sei-sette corridori. Mi giro verso uno e chiedo: "Fai la ventidue o la maratona?" "La ventidue."
Mi giro verso un altro: "Tu?" "Ventidue. Perché, tu quale faresti?"
"La maratona."
Il tipo prende un po' di fiato e urla:"Ahò, c'è sto gajardo che corre la maratona!"
Un paio di corridori ride, qualcun altro mi guarda come se avessi la lebbra. Io abbasso lo sguardo. Dopo un po' prendono la deviazione per Piazza san Pietro. Mi ritrovo solo, nessuno davanti, la gente che mi applaude. E a quel punto sono sicuro di aver sbagliato tutto. Rallento un pochino il passo, ma temo che sia troppo tardi per riprogrammare la corsa.
Al chilometro ventiquattro mi raggiunge l'auto della Rai, che stava con quelli che erroneamente riteneva i primi, due minuti dietro me. Al venticinquesimo il motorino di Paolo che mi affianca. "Sei andato a tre e venti a chilometro, forse un po' veloce..." "Già." Ora un gruppo di cinque mi raggiunge, ho ancora da fare quattordici chilometri e spero di arrivare in fondo.
Al chilometro trenta, la salita di Villa Borghese, e bummm! Salto per aria. Ho le gambe molli, pesanti, rallento il passo, vedo i primi che si allontanano.
Paolo mi urla: "Dai, forza, entra con le anche, finisci le spinte, dai!"
Entriamo in un lungo sottopassaggio, il rumore del motorino di Paolo accanto a me rimbomba sulle pareti in cemento, insieme allo scalpiccio dei miei passi che strascicano sull'asfalto. Sono in grande affanno. Altri corridori mi superano.
Dopo qualche centinaio di metri incalza Paolo: "Muovi le braccia, solleva di p-"
"Paolo finiscila, mi hai rotto i coglioni!" Il mio urlo esasperato è efficace, finalmente il silenzio, fino alla fine.
Va sempre peggio, gli ultimi chilometri sono un calvario. Nell'ultimo tratto ci sono dei corridori che stanno finendo i loro 22 chilometri e stanno andando al mio stesso passo. Sto correndo a più di quattro e trenta al chilometro. Finalmente il cupolone di Piazza San Pietro sullo sfondo, mancano tre chilometri. Ho sete, ma non ci sono rifornimenti(nel 1979 non usava avere punti di ristoro ogni 5 chilometri, ce ne saranno stati tre in tutto). Una sofferenza infinita, finalmente in Piazza San Pietro. Ma non finisce qui, anche se sono arrivato. Ho imboccato, forse per la vista annebbiata, la corsia dell'arrivo dei ventidue chilometri. Non risulto nell'ordine di arrivo della maratona. Paolo si precipita al tavolo della giuria, sta cercando di convincerli che io ho fatto effettivamente la maratona. Basterebbe guardarmi. Nel frattempo cerco di prendere un bicchiere di té. Per prenderne uno ne rovescio sei, la signora del ristoro a metà tra il compassionevole e l'incazzato. Dopo dieci minuti arriva Paolo, mi comunica che è riuscito ad inserirmi con il tempo effettivamente fatto, nella classifica della maratona. Menomale. Ho terminato in due ore, trentacinque minuti e trentacinque secondi al decimo posto assoluto. La corsa più faticosa della mia vita, corsa in modo sgangherato, assurdo, da aspirante suicida. Eppure col passare degli anni le immagini delle vie romane, della gente, della pioggia, si ammantano di nostalgia e di piacere. Fino a qualche giorno fa, quando ho rivisto a casa di mia madre il diplomino di partecipazione. Un pezzo di carta che ha scoperchiato i miei ricordi.
Adesso, a cinquant'anni suonati, spero di poter allenarmi e correre la seconda maratona della mia vita entro la fine dell'anno. Con minori ambizioni, con lo stesso entusiasmo.
2 commenti:
Con maggior consapevolezza,
con rinnovato entusiasmo.
Tutto è nuovo!
:-)
L'entusiasmo c'è, è sicuramente rinnovato. Per la consapevolezza: con il passare del tempo mi rendo conto che ci sono ancora un sacco di cose nuove da vedere, assaporare, capire e il tempo non è infinito. Grazie per essere passata/o di qui
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