Pagine

sabato 24 marzo 2012

Alla ricerca del metallo verde


Il mio nonno vede gli extra-terrestri. 
Sì, proprio così. Li vede. Probabilmente non esistono, ok. Ma lui li vede.
Ovviamente non sta bene. Non sta bene nemmeno che io racconti della malattia di mio nonno, ma spero nella vostra discrezione. Forse è meglio procedere con un po' di ordine. Il mio nonno ha il morbo di Parkinson, e per camminare e non avere grossi tremori deve ingurgitare enormi quantità di medicine ogni giorno. Purtroppo queste medicine ogni tanto lo fanno uscire di senno, e allora sono dolori. Per tutti. 
Lui vede gli e.t. 
E questo, in genere, non fa danno a nessuno. In genere, almeno fino al momento in cui un e.t. non lo costringe a prendere la bicicletta e andare a prendere il metallo verde che sta in fondo al paese. 
Nessuno sa cosa sia questo metallo, a parte il mio nonno e il suo amico et, ma il fatto importante è che lui, poveretto, non dovrebbe prendere la bicicletta in quanto questo può comportare gravi rischi per lui e per gli altri. Allora, dicevo, il suo amico et gli ha detto di andare a prendere il metallo verde in fondo al paese, vicino al mobilificio. 
Se lui non avesse obbedito – ci ha detto in seguito – il suo amico et avrebbe incenerito tutta la sua famiglia. 
Bell'amico.
E così, mentre la nonna stava mettendo i piatti in lavastoviglie, il nonno ha trovato la chiave del lucchetto della bici, ha aperto il cancello e si è avventurato alla ricerca del metallo verde. Dopo pochi minuti la nonna si è accorta della fuga, e ci ha avvertito. 
Il mio babbo e la mia mamma hanno preso separatamente la macchina per perlustrare il paese in direzioni opposte, il mio fratello lo scooter, ed io la bicicletta. Per andare dove? Non lo sapevo nemmeno io, ma la giornata era calda ma non troppo, il sole splendeva nel cielo ed io avevo la possibilità di fare un giretto, per giunta senza nemmeno chiedere il permesso, anzi, ero in dovere di farlo. 
Sono andata in via Paladini, e mi sono messa prima di tutto a guardare oltre il cancello di una famiglia che il nonno conosce. Non c'era traccia della sua bicicletta, ed allora ho proseguito. Mi ha incrociato la mamma: “Visto niente?” 
“No” 
“Vado verso Santa Margherita, tu non ti allontanare troppo, e stai attenta.”
Ok”. 
Poi è sfrecciato mio fratello, che non mi ha calcolato nemmeno di striscio. Lui a malapena mi rivolge la parola in casa, figuriamoci fuori con un casco da marziano in testa. Prima del mobilificio, ho visto delle piante di granturco schiacciate sul bordo della strada. La bici di nonno era nel fosso. Mi sono fermata. Ho seguito il sentiero nel granturco. C'era nonno, con il volto a terra.
Nonno!” 
“Eh?” 
“Nonno, stai bene?” 
“Sì. Ma parla piano.” 
“Perché?” 
“Lui ci brucia se ci scopre.”
Guarda. L'ho trovato.” Mi mostra un pezzo di vetro verde bottiglia. 
“Che cosa é?” 
“Il metallo verde. Glielo devo dare, ora, altrimenti ci brucia.” Povero nonno, ho pensato. 
“Nonno. Ce la fai ad alzarti?” 
“No. Ma devo portare il metallo verde.” 
“A chi?” 
“Al marziano” Pausa di riflessione. Cosa faccio, urlo, vado a cercare aiuto o sto qui a cercare di calmarlo? “Senti, nonno. Glielo do io.” 
“E' pericoloso.” 
“Come è fatto?”
E' alto come uno sgabello, ha un grosso naso, è tutto verde, come il metallo.” 
“ Dove è?” 
“Mi aspetta sulla strada. Ma è pericoloso.” 
“Nonno, tu non ce la fai ad alzarti. Dobbiamo correre questo rischio. Altrimenti ci incenerisce.” Pausa. Il nonno mi guarda smarrito.
 “Va bene.” Mi porge il pezzo di vetro verde. 
“Vado.” Vado fuori dal granturco, butto il vetro nella fossa, aspetto due minuti. Torno.
Allora?” 
“Tutto bene, nonno.” 
“Davvero?” 
“Se ne è andato, e ti ringrazia. Non ti darà più fastidio.”
Il nonno sospira. “Menomale”
Nonno, mi presti il tuo telefono?”
Lo so cosa ci vuoi fare, io l'avevo spento. Tieni.” Sorride.
Babbo, siamo vicino al mobilificio, in mezzo al granturco. Sì. Il nonno sta bene.”
Il babbo è arrivato, ha aiutato il nonno ad alzarsi, poi siamo tornati a casa.
Alla sera il nonno stava meglio, si è reso conto di quello che aveva fatto e visto e immaginato nel pomeriggio. Io stavo davanti a lui con una fetta di cocomero in mano.
Scusami.” 
“No, nonno, è stato divertente” 
“Ah. Comunque mi sembrava vero.” 
“Deve essere stato brutto, nonno.” 
“Maaa...” 
“Cosa, nonno?” 
“No, pensavo.” 
“Cosa.”
Mi ha guardato con tono solenne e mi ha chiesto: “Ma sei proprio sicura che non tornerà più?”
Io non sapevo cosa rispondere. 
“Ci sei cascata, eh? Sto meglio, piccola. Almeno fino a domani. Domani si vedrà.” 
Lui mi ha sorriso, io ho sorriso. 
Era una bella sera di giugno.

lunedì 12 marzo 2012

La mia epica maratona

Un uomo solo al comando. Sta correndo a Roma la maratona di San Silvestro, è al ventiquattresimo chilometro ed ha un vantaggio di circa due minuti sul secondo. Accanto a lui l'auto della Rai regione Lazio con tanto di telecronista che cerca di capire chi sia questo Carneade. Scartabella l'elenco iscritti, ma i diecimila nomi di un tabulato ripiegato male sono troppi; alla fine desiste, si sporge dal finestrino e lo chiede al corridore."La Malfa", risponde intimorito e in affanno l'uomo solo al comando.
Non è un sogno post-peperonata, no, e nemmeno la variante di un racconto di Murakami Haruki sulla corsa. E' andata proprio così, cari lettori. Ma forse è meglio fare qualche passo indietro.
Siamo a dicembre 1979, anzi no, meglio fare qualche passo ancora più indietro: settembre 1979, la fine delle vacanze estive dopo la quarta liceo. Un dopocena a casa mia, il mio allenatore Paolo ed io stiamo facendo il programma di allenamenti, obiettivi e gare per l'anno a venire. Il campionato italiano juniores di Maratonina a giugno è il principale impegno, tutti d'accordo. Ma non sarebbe male, aggiunge Paolo, verificare la tua tenuta long-endurance, spostare un po' i tuoi orizzonti della tua resistenza aerobica.
Quando Paolo fa dei discorsi fumosi con qualche parola inglese, capisco che non ha il coraggio di esprimere con decisione una sua proposta; sta girando intorno ad un'idea folle che necessita di un apripista. E infatti.
"Che vuoi dire, Paolo?"
"Alla fine di dicembre", si schiarisce la voce "che ne diresti di una maratona?".
"Paolo, ho solo diciott'anni. Non è nemmeno nel calendario ufficiale delle gare Juniores."
In realtà la discussione non dura gran che, visto che l'idea romantica di una maratona stava già dentro me da quando avevo studiato di Filippide e della sua folle corsa verso Atene. Da settembre a dicembre faccio il pieno di chilometri di allenamento con cui avrei potuto, da casa mia, raggiungere agevolmente le colonne d'Ercole, ma non vivo quest'esperienza come se stessi per affrontare una delle sue dodici fatiche. No. Il lungo lento mi permette di uscire, di correre due ore, due ore e mezzo con vista mare, in mezzo a pini e macchia mediterranea. Mi piace. Le ripetute in pista e le salite, un po' meno. Ma Filippide, vuoi mettere...
Domenica 30 dicembre 1979, piazza San Pietro, ore 9,30. Hanno annunciato che il nuovo papa Karol WoJtyla, un papa con precedenti sportivi, si affaccerà per dare la benedizione ai partenti della maratona. Fumata nera, è indisposto, ci viene letto un suo messaggio di augurio. Alle dieci i dieci-mila concorrenti, compreso il sottoscritto, partono al colpo di pistola. C'è una pioggerella fitta e insistente che bagna tutti, compresi i sampietrini che diventano viscidi. Pazienza. Paolo è in sella ad un motorino dalle ruote minuscole, ma mi perde alla partenza, si perde tra la folla. Visto che è più o meno un anello di ventuno chilometri da ripetere due volte, mi ribeccherà al secondo giro. Sto bene, le gambe girano a dovere, mi metto in un gruppetto di corridori, rimango con loro, senza avere la minima cognizione su quanto stia andando. Sono leggero, i saliscendi dei sette colli non mi turbano più di tanto. In prossimità delle terme di Caracalla, un consistente gruppetto devia verso il primo traguardo, quello dei dieci chilometri. Rimangono in gara i partecipanti per i ventidue chilometri e per la maratona. Ogni tanto una fila di automobili bloccata dai vigili con relativi automobilisti inscena un concertone di clacson per il blocco del traffico. Continuo ad avere positive sensazioni, ma non riesco a capire se il mio ritmo di corsa sia adeguato alla distanza da percorrere. Ogni cartello chilometrico che passo è comunque un sollievo. Verso il ventesimo chilometro sono in un gruppetto di sei-sette corridori. Mi giro verso uno e chiedo: "Fai la ventidue o la maratona?" "La ventidue."
Mi giro verso un altro: "Tu?" "Ventidue. Perché, tu quale faresti?"
"La maratona."
Il tipo prende un po' di fiato e urla:"Ahò, c'è sto gajardo che corre la maratona!"
Un paio di corridori ride, qualcun altro mi guarda come se avessi la lebbra. Io abbasso lo sguardo. Dopo un po' prendono la deviazione per Piazza san Pietro. Mi ritrovo solo, nessuno davanti, la gente che mi applaude. E a quel punto sono sicuro di aver sbagliato tutto. Rallento un pochino il passo, ma temo che sia troppo tardi per riprogrammare la corsa.
Al chilometro ventiquattro mi raggiunge l'auto della Rai, che stava con quelli che erroneamente riteneva i primi, due minuti dietro me. Al venticinquesimo il motorino di Paolo che mi affianca. "Sei andato a tre e venti a chilometro, forse un po' veloce..." "Già." Ora un gruppo di cinque mi raggiunge, ho ancora da fare quattordici chilometri e spero di arrivare in fondo.
Al chilometro trenta, la salita di Villa Borghese, e bummm! Salto per aria. Ho le gambe molli, pesanti, rallento il passo, vedo i primi che si allontanano.
Paolo mi urla: "Dai, forza, entra con le anche, finisci le spinte, dai!"
Entriamo in un lungo sottopassaggio, il rumore del motorino di Paolo accanto a me rimbomba sulle pareti in cemento, insieme allo scalpiccio dei miei passi che strascicano sull'asfalto. Sono in grande affanno. Altri corridori mi superano.
Dopo qualche centinaio di metri incalza Paolo: "Muovi le braccia, solleva di p-"
"Paolo finiscila, mi hai rotto i coglioni!" Il mio urlo esasperato è efficace, finalmente il silenzio, fino alla fine.
Va sempre peggio, gli ultimi chilometri sono un calvario. Nell'ultimo tratto ci sono dei corridori che stanno finendo i loro 22 chilometri e stanno andando al mio stesso passo. Sto correndo a più di quattro e trenta al chilometro. Finalmente il cupolone di Piazza San Pietro sullo sfondo, mancano tre chilometri. Ho sete, ma non ci sono rifornimenti(nel 1979 non usava avere punti di ristoro ogni 5 chilometri, ce ne saranno stati tre in tutto). Una sofferenza infinita, finalmente in Piazza San Pietro. Ma non finisce qui, anche se sono arrivato. Ho imboccato, forse per la vista annebbiata, la corsia dell'arrivo dei ventidue chilometri. Non risulto nell'ordine di arrivo della maratona. Paolo si precipita al tavolo della giuria, sta cercando di convincerli che io ho fatto effettivamente la maratona. Basterebbe guardarmi. Nel frattempo cerco di prendere un bicchiere di té. Per prenderne uno ne rovescio sei, la signora del ristoro a metà tra il compassionevole e l'incazzato. Dopo dieci minuti arriva Paolo, mi comunica che è riuscito ad inserirmi con il tempo effettivamente fatto, nella classifica della maratona. Menomale. Ho terminato in due ore, trentacinque minuti e trentacinque secondi al decimo posto assoluto. La corsa più faticosa della mia vita, corsa in modo sgangherato, assurdo, da aspirante suicida. Eppure col passare degli anni le immagini delle vie romane, della gente, della pioggia, si ammantano di nostalgia e di piacere. Fino a qualche giorno fa, quando ho rivisto a casa di mia madre il diplomino di partecipazione. Un pezzo di carta che ha scoperchiato i miei ricordi.
Adesso, a cinquant'anni suonati, spero di poter allenarmi e correre la seconda maratona della mia vita entro la fine dell'anno. Con minori ambizioni, con lo stesso entusiasmo.



 

sabato 10 marzo 2012

Raccontare le donne


Martedì 6 marzo si è svolto il consueto incontro di lettura alla biblioteca delle Oblate di Firenze. Un incontro intenso, vibrante, a tratti leggero e in altri pesante come un macigno. Ma bello, come la vita.
Si è parlato di donne: donne acrobati, festaiole, ferventi protagoniste di maternità nonché di riserbo, testimoni di morte, donne figlie maltrattate fisicamente o psicologicamente da donne madri, donne spaccate, donne sull'orlo di una crisi di nervi, donne alla ricerca di una splendida felicità. Riporto qui sotto una infedele sintesi delle riflessioni sui brani letti.

Accabadora di Michela Murgia, letto da Donatella. Le donne sono protagoniste della nascita e ritualmente coinvolte nella morte; sono  sempre vicine a questi momenti di passaggio. Si parla del ciclo delle maree, c'è una forte evocazione della cultura contadina, della sua saggezza. Sono pagine molto sentite per chi, vuoi per motivi anagrafici o contingenze della vita, avverte il bisogno di confrontarsi con la morte. C'è anche la sofferenza, il dolore per una persona che se ne va,  ma anche un recupero della cultura dell'accompagnamento alla morte di una persona cara nel miglior modo possibile. Sono, in queste due pagine, maledette la nascita e la morte in solitudine. Si legge anche della complessità e della differenza tra la pietà di chi vede compiere una malvagità e il delitto di chi effettivamente la compie.
 
Pedalabile beat, di Massimo Fagioli, letto da Stefano. C'è un fermo immagine sulla profonda passione del protagonista per una ragazza. E' un tipo che non ha avuto il coraggio di palesare questa passione e uno qualsiasi - il primo che passa, verrebbe da dire - gliel'ha soffiata. Una situazione eternamente presente nell'immaginario collettivo maschile. Il tipo qualsiasi ha capito lo spirito della serata, ha colto l'occasione al volo, afferrato il desiderio della donna. In questo brano la donna non c'è, c'è solo di rimando, il narrato è focalizzato sulle sensazioni di lui. Sarebbe interessante un brano a parti rovesciate: con la voce narrante di lei che motiva la sua decisione di andare con il "tipo qualsiasi".

Possedere il segreto della gioia, di Alice Walker, letto da Toni. Più che la scrittura, lo stile, qui colpisce l'argomento. Una bambina che viene sottoposta a infibulazione; questa barbarie è praticata dalla mamma, che ha questo ruolo "privilegiato" nel villaggio. Il rapporto di fiducia, il legame profondo madre-figlia, la possibilità di credere ciecamente nel fatto che la madre desideri sempre e comunque il bene della figlia è distrutto da un coltello mezzo arrugginito e una pietra tagliente.

Fuochi, di Marguerite Yourcenar, letto da Martina. Qui c'è una donna acrobata, alla fine della sua vita artistica. Questa donna non può far altro che risplendere da sola di luce propria. Ci sono delle compagne circensi, che lei aiuta a volteggiare con le sue acrobazie, ma nessuna resiste più di tanto a dividere il cielo con lei. Questo volto fortemente femminile piange la sua giovinezza, allo stesso modo in cui piange una donna che scopre di essere stata tradita. Molto boheme. Questa donna non sta bene né in terra né in cielo, sta bene solo a metà tra terra e cielo. Ricorda le fattezze estremamente umane degli angeli dipinti da Chagall.
  
Spaccata, poesia di Solidea Ruggiero, letta da Benedetta. Parlando in prima persona vengono forniti dei tratti descrittivi che riescono a visualizzare una donna frammentata. C'è una donna dietro le quinte che presenta i suoi frammenti senza presentare la sua interezza. Si alterna la frase lunga in prosa a dei versi poetici, un modo retrò di esporre il proprio pensiero.

Genesi, poesia di Alda Merini, letta da Elena. Qui c'è la figura della donna che anela alla maternità. Un inno alla vita totale, ma non è un inno declamato da una donna giovane. Quasi si avverte la pesante esperienza del passato accompagnata dalla necessità, dalla certezza che niente più conta al mondo, in quel momento, di una maternità. La poesia si rivolge in seconda persona ad un interlocutore, all'esigenza di intrecciare con lui il rapporto che potrà placare questa sete di genesi.
 
Le parole per dirlo, di Marie Cardinal, letto da Francesca. Anche in questo caso l'oggetto della storia prevale sullo stile, sulla tecnica narrativa. C'è la riscrittura del suo percorso di psicanalisi della protagonista. Le parole sono il mezzo per ricostruire dei pezzetti di vita, la sua vita. Nel rinominare le cose lei si ricorda e rimette a posto i tasselli della sua storia, facendo questo lavoro di analisi. C'è una profonda riflessione sui rapporti familiari. Le parole danno vita alla scena, una serie di oggetti che danzano intorno alla sua memoria. E' stato sufficiente vedere il meccanismo per poterlo smontare. Ad esempio delineare il potere di sua madre per depotenziarlo.

Lentamente muore, poesia di Marta Medeiros, letta da Luca. Viene esposto il modo femminile, netto e radicale, per non morire.  Al maschile si ricorre a maggiori compromessi; parafrasando Paolo Conte(autore di "Insieme a te non ci sto più"), nel modo maschile "si muore un po' per poter vivere".  Nessuna delle singole cose, apparentemente banali e semplici, di questo elenco ha importanza, ma la loro sommatoria: viaggiare, ascoltare musica, leggere, trovare la grazia in sé stessi, avere il coraggio di capovolgere un tavolo, non passare il tempo a lamentarsi della propria sfortuna, e tanto altro ancora, una paziente ragnatela da tessere in ogni giorno della propria vita.

Ci vediamo alle 21,30 di martedì 3 aprile, sempre alle Oblate. Un sentito grazie alle splendide lettrici e lettori.