Undici
Quell'anno, il 1971, la Pasqua sarebbe caduta l'undici di aprile. Lo sapevamo bene, a scuola: una settimana di vacanza, a partire dal giovedì precedente, l'otto. Lo sapevamo bene, a dottrina: ci stavamo preparando alla prima comunione. E la domenica delle Palme, dopo la messa, l'annuncio di Suor Franca: Giorgio, Stefano, Franco, Marco, e altri otto nomi compreso il mio. Riserva: Marcello. I dodici apostoli - più la riserva che sarebbe stata in panchina, ovvero seduto nella panca della chiesa atto a rimpiazzare eventuali indisposizioni - avrebbero partecipato alla lavanda dei piedi nel pomeriggio di giovedì santo, alle ore 17. "E' importante" disse Suor Franca "e venite con i piedi lavati, la lavanda che vi farà Don Ivo è simbolica."
Il giovedì seguente, dopo la campanella, il portone della scuola si spalancò vomitando ragazzini chiassosi e festanti. Pareva una prova generale di ciò che sarebbe accaduto l'ultimo giorno di scuola. Per i compiti, se ne sarebbe parlato il martedì seguente, sempre l'ultimo giorno utile. Era aria di festa. Si formò un capannello di ragazzini gioiosi per fissare il ritrovo pomeridiano. "Al campo degli ulivi alle tre". Il campo degli ulivi era adibito a campo di calcio, anche se si doveva evitare un paio di alberini a centrocampo, e la partita sarebbe stata:"Quinta D contro quinta F".
Io ero nella D, e non ero dei più dotati per il calcio; fin da quei giorni mi ero accorto di avere una resistenza alla fatica superiore a quella dei miei coetanei, e quindi potevo dire la mia in bici e nella corsa prolungata, ma non avevo la grinta di buttarmi in un contrasto di gioco, di tirare di testa, di calciare una punizione efficace, insomma ero - per la nostra rudimentale concezione di gioco del calcio - uno di quelli da difesa, come se fosse buona cosa piazzare gli scarsi a incassare gol, o meglio ancora ero da panchina.
Quel pomeriggio si presentò un gran numero di ragazzini al campo, compresi alcuni spettatori di altre sezioni, tanto da garantire una partita con numero regolamentare, e noi della D eravamo in dodici. Io mi tirai fuori subito, prima che me lo dicesse qualcun altro. Del resto sarei dovuto andare alla lavanda dei piedi.
La partita cominciò, e io mi stesi sul prato insieme con Pasquale, il mio amico della F, anche lui fuori dai giochi. Avevo tre quarti d'ora prima di avviarmi verso la chiesa. Mentre parlavamo io e Pasquale, il nugolo di giocatori che inseguiva come uno sciame la sfera magica(gli schemi erano completamente saltati al secondo minuto di gioco) di tanto in tanto esultava per metà e imprecava per l'altra metà, raggiungendo rapidamente il punteggio di due a due. Alla mezz'ora Alessandro Marchettini stava per entrare in area avversaria palla al piede, quando venne sgambettato. Alessandro volò, grattugiando il ginocchio sul terreno sconnesso. Pianti, sangue, Alessandro non se la sentiva più di proseguire, si avviò zoppicante verso casa, inoltre rigore non concesso perché quelli della F se la cavavano bene con i discorsi. Sconcerto nelle file della D. Gli occhi puntati verso me. "No, ragazzi, devo andare alla lavanda, alla messa." "E dai." "No" "Dai." Anche quelli della F insistevano. Alla fine mi trascinarono in campo con la promessa di finire la partita al più presto, ovvero nel momento in cui una delle due squadre avesse segnato. In fondo quattro gol in mezz'ora...un altro gol entro un quarto d'ora sarebbe stato estremamente probabile. Che non arrivò."Ragazzi, devo andare..."
"Non ti ci provare" mi disse Stefano, che era il doppio di me."Al gol finiamo."
Stefano aveva quel modo di fare estremamente convincente, e rimasi. La partita di calcio si trasformò nello stallo di una partita di scacchi, le porte erano incantate, una specie di campi elettromagnetici che respingevano qualsiasi cosa potesse assomigliare ad una sfera. "Che ore sono?" chiesi a Pasquale a bordo campo. "Le cinque e cinque."
"Non è che ci potresti andare tu?" "Ma sei matto?" "E poi io la comunione la faccio il prossimo anno." Avvertii un senso di profonda inquietudine, cercai di consolarmi pensando a Marcello, la riserva, e poi ormai non avevo nemmeno i piedi puliti, ed ero un bagno di sudore. Come se tutti gli altri lo facessero apposta, la partita si prolungava senza il gol. Ormai erano le cinque e mezzo, stavo in difesa cercando di fronteggiare il Poli che si preparava ad un tiro da fuori area, ma scivolò in modo ridicolo. Non mi restava che prendere la palla; arrivai in prossimità degli alberi a centrocampo, e da dietro di uno di essi, cercai di fare una specie di cross in area. Presi la palla di collo pieno, e invece di raggiungere i miei compagni appostati, la sfera si diresse in modo maligno verso la porta, insaccandosi dietro il portiere incredulo. Il sospirato golden goal, partito da un mio tiro a banana. Il mondo si era fermato, bisognava che riscrivesse in fretta un copione imprevisto.
Dopo due tre secondi di silenzio assoluto, tutti corsero verso di me, mi abbracciarono, ero l'eroe del giorno. Non avevamo mai vinto contro la F, e così i miei compagni fecero una colletta e mi offrirono una spuma bionda al Bar Stella. Risate, scherzi, commenti del dopo partita. Ci salutammo alle sei e mezzo.
La mia mamma mi aspettava sull'uscio. "Suor Franca ha telefonato tre volte, dove sei stato?"
"Io...ma Marcello non c'era?"
"La suora ha telefonato tre volte." Ebbi paura, la mia dolce mamma era paonazza e con gli occhi spiritati. Cominciai a piangere come una fontana, farfugliando vigliaccamente qualcosa sul fatto che non mi avevano lasciato andare, ma senza grande convinzione.
"Ora vai dalla suora."
"Cosa?"
"Vai. Glielo dici tu quello che hai fatto."
Avrei preferito che mia madre mi picchiasse a sangue, ma non mi sfiorò nemmeno.
Erano le sette e mezzo, era già buio, e con i passi pesanti raggiunsi il convento.
Suonai, la mano tremava come il campanello.
Il portone si aprì, chiesi di Suor Franca.
Arrivò a passi svelti e mi urlò contro. "Non è mai successo! Undici! Undici apostoli con don Ivo! Che vergogna!"
"Ma Marcello..." replicai singhiozzante.
"Marcello non c'era! E tu, tu...tu c'eri! Sì, c'eri anche tu! Eri Giuda!"
"Io...mi dispiace, io pensavo che Marc..."
"E finiscila con Marcello! Marcello non c'era! Ma tu avevi preso un impegno solenne! Dove sei stato?"
"Io...non mi hanno fatto andare via, la partita, non finiva più, io mi dispiace tanto, io..."
Non riuscii più a parlare dai singhiozzi. La suora si avvicinò a me e mi avvolse con le sue braccia corpulente. Mi persi con la testa tra le pieghe dei suoi drappi neri e sentii un gran calore. Continuai a mugolare e singhiozzare per un po', pian piano mi calmai.
Doveva essere stata una giornata dura per lei, pensai.
"Non importa", mi disse. Mi tenne abbracciato, stretto per qualche minuto. In silenzio, all'imbrunire.
Il giovedì seguente, dopo la campanella, il portone della scuola si spalancò vomitando ragazzini chiassosi e festanti. Pareva una prova generale di ciò che sarebbe accaduto l'ultimo giorno di scuola. Per i compiti, se ne sarebbe parlato il martedì seguente, sempre l'ultimo giorno utile. Era aria di festa. Si formò un capannello di ragazzini gioiosi per fissare il ritrovo pomeridiano. "Al campo degli ulivi alle tre". Il campo degli ulivi era adibito a campo di calcio, anche se si doveva evitare un paio di alberini a centrocampo, e la partita sarebbe stata:"Quinta D contro quinta F".
Io ero nella D, e non ero dei più dotati per il calcio; fin da quei giorni mi ero accorto di avere una resistenza alla fatica superiore a quella dei miei coetanei, e quindi potevo dire la mia in bici e nella corsa prolungata, ma non avevo la grinta di buttarmi in un contrasto di gioco, di tirare di testa, di calciare una punizione efficace, insomma ero - per la nostra rudimentale concezione di gioco del calcio - uno di quelli da difesa, come se fosse buona cosa piazzare gli scarsi a incassare gol, o meglio ancora ero da panchina.
Quel pomeriggio si presentò un gran numero di ragazzini al campo, compresi alcuni spettatori di altre sezioni, tanto da garantire una partita con numero regolamentare, e noi della D eravamo in dodici. Io mi tirai fuori subito, prima che me lo dicesse qualcun altro. Del resto sarei dovuto andare alla lavanda dei piedi.
La partita cominciò, e io mi stesi sul prato insieme con Pasquale, il mio amico della F, anche lui fuori dai giochi. Avevo tre quarti d'ora prima di avviarmi verso la chiesa. Mentre parlavamo io e Pasquale, il nugolo di giocatori che inseguiva come uno sciame la sfera magica(gli schemi erano completamente saltati al secondo minuto di gioco) di tanto in tanto esultava per metà e imprecava per l'altra metà, raggiungendo rapidamente il punteggio di due a due. Alla mezz'ora Alessandro Marchettini stava per entrare in area avversaria palla al piede, quando venne sgambettato. Alessandro volò, grattugiando il ginocchio sul terreno sconnesso. Pianti, sangue, Alessandro non se la sentiva più di proseguire, si avviò zoppicante verso casa, inoltre rigore non concesso perché quelli della F se la cavavano bene con i discorsi. Sconcerto nelle file della D. Gli occhi puntati verso me. "No, ragazzi, devo andare alla lavanda, alla messa." "E dai." "No" "Dai." Anche quelli della F insistevano. Alla fine mi trascinarono in campo con la promessa di finire la partita al più presto, ovvero nel momento in cui una delle due squadre avesse segnato. In fondo quattro gol in mezz'ora...un altro gol entro un quarto d'ora sarebbe stato estremamente probabile. Che non arrivò."Ragazzi, devo andare..."
"Non ti ci provare" mi disse Stefano, che era il doppio di me."Al gol finiamo."
Stefano aveva quel modo di fare estremamente convincente, e rimasi. La partita di calcio si trasformò nello stallo di una partita di scacchi, le porte erano incantate, una specie di campi elettromagnetici che respingevano qualsiasi cosa potesse assomigliare ad una sfera. "Che ore sono?" chiesi a Pasquale a bordo campo. "Le cinque e cinque."
"Non è che ci potresti andare tu?" "Ma sei matto?" "E poi io la comunione la faccio il prossimo anno." Avvertii un senso di profonda inquietudine, cercai di consolarmi pensando a Marcello, la riserva, e poi ormai non avevo nemmeno i piedi puliti, ed ero un bagno di sudore. Come se tutti gli altri lo facessero apposta, la partita si prolungava senza il gol. Ormai erano le cinque e mezzo, stavo in difesa cercando di fronteggiare il Poli che si preparava ad un tiro da fuori area, ma scivolò in modo ridicolo. Non mi restava che prendere la palla; arrivai in prossimità degli alberi a centrocampo, e da dietro di uno di essi, cercai di fare una specie di cross in area. Presi la palla di collo pieno, e invece di raggiungere i miei compagni appostati, la sfera si diresse in modo maligno verso la porta, insaccandosi dietro il portiere incredulo. Il sospirato golden goal, partito da un mio tiro a banana. Il mondo si era fermato, bisognava che riscrivesse in fretta un copione imprevisto.
Dopo due tre secondi di silenzio assoluto, tutti corsero verso di me, mi abbracciarono, ero l'eroe del giorno. Non avevamo mai vinto contro la F, e così i miei compagni fecero una colletta e mi offrirono una spuma bionda al Bar Stella. Risate, scherzi, commenti del dopo partita. Ci salutammo alle sei e mezzo.
La mia mamma mi aspettava sull'uscio. "Suor Franca ha telefonato tre volte, dove sei stato?"
"Io...ma Marcello non c'era?"
"La suora ha telefonato tre volte." Ebbi paura, la mia dolce mamma era paonazza e con gli occhi spiritati. Cominciai a piangere come una fontana, farfugliando vigliaccamente qualcosa sul fatto che non mi avevano lasciato andare, ma senza grande convinzione.
"Ora vai dalla suora."
"Cosa?"
"Vai. Glielo dici tu quello che hai fatto."
Avrei preferito che mia madre mi picchiasse a sangue, ma non mi sfiorò nemmeno.
Erano le sette e mezzo, era già buio, e con i passi pesanti raggiunsi il convento.
Suonai, la mano tremava come il campanello.
Il portone si aprì, chiesi di Suor Franca.
Arrivò a passi svelti e mi urlò contro. "Non è mai successo! Undici! Undici apostoli con don Ivo! Che vergogna!"
"Ma Marcello..." replicai singhiozzante.
"Marcello non c'era! E tu, tu...tu c'eri! Sì, c'eri anche tu! Eri Giuda!"
"Io...mi dispiace, io pensavo che Marc..."
"E finiscila con Marcello! Marcello non c'era! Ma tu avevi preso un impegno solenne! Dove sei stato?"
"Io...non mi hanno fatto andare via, la partita, non finiva più, io mi dispiace tanto, io..."
Non riuscii più a parlare dai singhiozzi. La suora si avvicinò a me e mi avvolse con le sue braccia corpulente. Mi persi con la testa tra le pieghe dei suoi drappi neri e sentii un gran calore. Continuai a mugolare e singhiozzare per un po', pian piano mi calmai.
Doveva essere stata una giornata dura per lei, pensai.
"Non importa", mi disse. Mi tenne abbracciato, stretto per qualche minuto. In silenzio, all'imbrunire.
2 commenti:
Ciao Toni! Complimeti per i tuoi racconti!
Hai delle potenzialià veramente eccellenti.
Vorrei consigliarti di modificare la visualizzazione del blog che, oramai, su schermi
moderni, risulta troppo "strizzato" (può togliare, all'occasionale visitatore, la voglia di approcciarne la lettura).
Dai aria allo scritto. Dopo il punto...ogni tanto puoi anche andare a capo...;)
Un salutone!
Grazie per i tuoi incoraggiamenti! Cercherò di seguire il tuo consiglio dando più aria alle parole :)
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