Forse è colpa mia. Vorrei chiederglielo ma non ho il coraggio. Bisogna essere coraggiosi per fare certe cose e io non ce l'ho quel coraggio. Vorrei andare di là e chiedergli: "E' colpa mia?". E' semplice. Solo tre parole. Eppure non ce la faccio. E' vero che se poi non è colpa mia, allora mi sento meglio. Ma se fosse colpa mia, non ce la farei a guardarla negli occhi. Sarebbe una cosa brutta. Sapere che non gioca più con me, per colpa mia. Mi dice sono stanca tesoro, e se ne va a letto e dice vai di là tesoro, vai con il tuo babbone.
Si gira e spegne la luce.
E poi sapere che non sta più in bagno con me per colpa mia, sarebbe brutto. Prima facevamo la doccia insieme, ora invece si chiude a chiave. Quando io devo fare la doccia, mi aiuta sempre, ma lei sta vestita con la tuta o il pigiama, anche se si bagna e poi si deve cambiare. Io gli dico di levarsi la tuta che poi si bagna, e lei dice di no.
Io sono un po' monello, ogni tanto ne combino una, ma non voglio che la mamma non giochi più con me per colpa mia. Ma poi, anche se non fosse colpa mia, sì mi sentirei meglio, ma solo un poco poco meglio. A pensarci bene, la cosa che mi dispiace davvero è il fatto che da un po' di tempo la mamma non gioca più con me.
Ha cambiato i capelli, ma quello no, non per colpa mia. Dovrei fare una magia per cambiare i capelli alla mia mamma, e io non sono un mago, non sono un brujo. Li ha cambiati in un modo magico, lei sì che è un'encantadora. Perché un giorno se li è tagliati molto corti dal parrucchiere, non stava bene ma non gliel'ho detto, e nei giorni a venire vedevo capelli in tutte le stanze, anche se la mia mamma - o anche il babbo, perché lei era molto stanca - passava il folletto tutti i giorni. Poi una mattina ho visto la mamma con i capelli lunghi. Come i capelli di un'egiziana del libro sull'Egitto che mi piace tanto. Belli, tanti, lisci, neri. Una magia. Come li aveva l'altr'anno al mare, ma un po' più lunghi.
Io ho chiesto alla mamma se quest'anno torniamo al mare, lei ha detto speriamo, sì. Speriamo, mi ha detto, e poi mi ha abbracciato e mi ha detto sì, tesoro, ci andremo.
Io spero in un'altra magia.
Spero che la mamma ritorni a giocare con me.
La mamma e il babbo hanno già fatto una grande magia tanto tempo fa.
Io stavo in una casa grande con tanti letti e tanti bambini. Tutti i bambini, come me, stavano aspettando il loro papà e la loro mamma. Una maestra tutti i giorni ci diceva che un giorno il nostro papà e la nostra mamma sarebbero venuti a prenderci.
E un giorno sono venuti.
Il primo giorno sono venuti mentre giocavamo nel cortile, ma non mi hanno detto niente. Me li ricordo bene. Si guardavano intorno come se non sapessero chi fosse il loro bambino. Poi sono venuti un altro giorno e mi hanno guardato sorridenti e mi hanno detto: "siamo il tuo papà e la tua mamma!" E' stata una grande magia, quella. Mamma, devi farne un'altra ancora. Come quella, e come quella dei capelli.
Devi tornare a giocare con me.
Ci hanno detto che il periodo più critico sono questi due anni a venire. Poi le percentuali delle aspettative di vita salgono molto, ma fino a dieci anni la sicurezza matematica non ce l'hai mai. I medici, poi, mi hanno preso da parte e mi hanno detto che sarebbe un miracolo.
Ho pianto. Ho pianto. Ho pianto.
Poi mi sono asciugato le lacrime e sono tornato di là.
Era così bello prima, prima di diventare così traballanti. Mi ricordo il giorno in cui siamo scesi dall'aereo con Matteo. Lui ci diceva brujo, encantadora, magica. Insomma, ci aveva preso per due maghi. Che risate.
Fin dal primo giorno lui si è affidato a noi. Matteo è una delle nostre ragioni di vita. Le maestre della scuola materna ci dicono che Matteo si stupisce di tutto, si meraviglia, si appassiona. Ogni giorno ci appassiona. Se non fosse per quello che è successo, saremmo felici. Io credo, sì, che in questi due anni trascorsi - prima degli ultimi sei mesi - noi tre siamo stati insieme felici, di una felicità inattaccabile come una fortezza a picco sul mare. E anche questo, sì, anche questo ricordo è un tormento.
Oggi stiamo attenti ad ogni suo minimo dolore, ad ogni suo respiro affannoso, ad ogni segnale corporeo di Francesca, temendo il peggio. Vorrei un po' del suo dolore fisico, vorrei un po' del suo vomito e del suo smarrimento, vorrei donarle i miei capelli, che comunque stanno ricrescendo. Vorrei una cicatrice sul petto e qualche bruciatura.
Vorrei che Francesca non si ammalasse.
Matteo la guarda con un po' di sospetto in questo periodo. Forse la vede stanca. O forse è il fatto che Francesca non ce la fa a dedicargli tutto il tempo che gli dedicava prima. Cerco di compensare le sue assenze, quelle fisiche - le mattine in ospedale - e quelle in cui Francesca c'è ma non c'è.
Io la amo.
La paura di perderla me la fa desiderare ancora di più.
Forza Francesca. Forza. Forza.
Ho un taglio sul petto.
Signora, c'è da tagliare, mi hanno detto. Tagliamo, ho risposto.
Quell'incisione ha diviso la mia vita tra un prima e un poi. E sta lì per ricordarmelo, del resto come è possibile dimenticare?
Mi guardo allo specchio, nuda, e mi manca la mia femminilità. Mi copro con le braccia la parte destra del petto e penso a prima. Ma le braccia si stancano, mi cascano, e rivedo quelle cicatrici. C'è anche il rossore intenso della radioterapia. Un paio di ulcere sulla pelle. L'assenza dei capelli. Un cranio nudo e degli occhi infossati che mi osservano. Stento a riconoscermi. Con un seno sì ed uno no. E quel colore pallido del corpo, annacquato dalle flebo e dai miei malori. Sono ancora una donna? Assomiglio a uno di quei fantasmi asessuati provenienti da Auschwitz.
Michele è dolce con me. E' comprensivo. Ma non riesce a dissimulare fino in fondo quel vago senso di compassione, quella stucchevole pietà che mi rende a mia volta sfuggente. Non può farci niente, poveretto. E' costretto a guardare questo animale che gli sta accanto, e ad interpretare le tempeste che si stanno scatenando nel mio corpo.
- Cisplatino (80 mg/mq );
- Gemcitabina (1000 mg/mq);
- Fluorouracile (infusione, 200 mg/mq/die).
Questi nomi ora sono dentro di me. Quando li ho letti la prima volta, ho pensato con sufficienza che sarebbe bastato essere forti, essere pronti ad accoglierli. Questi nomi periodicamente mi invadono, mi squassano, mi strapazzano, mi succhiano le energie, e io soccombo, mi arrendo. Chissà se hanno strapazzato anche il mio nemico, quelle celluline impalpabili che se ne stanno nascoste chissà dove.
Dopo l'intervento ho preso coscienza di quelle celluline, prima no. Prima pensavo al quel gonfiore situato nel seno destro, e basta. E' stato un grosso dolore pensare al fatto che mi avrebbero tolto un seno. E ho avuto anche molto dolore dopo l'intervento. Ma riuscivo ad accettarlo. Pensavo: mi hanno amputato, sono menomata, invalida, una donna imperfetta, ma la cosa finisce lì.
Invece no.
In 21 linfonodi su 40 hanno trovato quelle cellule. Mi ricordo l'aria di imbarazzo dei due medici che ogni tanto si guardavano l'un l'altro. Non si preoccupi, faremo un "total body", no non abbiamo trovato niente, o forse erano solo lì, bisogna monitorare attentamente, non bisogna sottovalutare niente, cose così, che giravano intorno ai loro sguardi di morte; stavano guardando me, per loro e le loro statistiche ho capito di essere già morta. Non c'è niente in altre parti del corpo, ma non ha molta importanza.
Arriveranno.
Nella maggior parte dei casi ritornano. A deturpare qualche altra parte del corpo: ossa, polmoni, cervello, chi lo sa? Se scamperò a questi due anni, è come se avessi vinto il superenalotto e sopravviverò. Anche se la certezza matematica di averla scampata, fino a dieci anni, non l'avrò. Percentuali, statistiche, tempi.
Il tempo. Come quella canzone di Fossati: "Il bacio sulla bocca": "...Bella, non ho mica vent'anni ne ho molti di meno e questo vuol dire (capirai) responsabilità.... ". Lì per lì non capivo quei vent'anni, poi ho intuito che si tratta degli anni rimasti da vivere. E' un vecchio che parla. I vecchi contano alla rovescia, come me.
Due, dieci, venti. Magari. Potessi vedere Matteo alle scuole superiori. Dopo ogni chemio non ce la faccio a giocare con lui; sono stanca, mi impongo di chiedere, giocare, parlare. Ma quei nomi - il cisplatino, la gemcitabina, il fluorouracile - prendono il sopravvento e non mi rimane che chiudere gli occhi senza sonno. E non posso spiegargli che cosa stia succedendo, che forse muoio. Mi ha trovata da poco, non voglio che perda ancora una volta la sua mamma. Non voglio. Che fregatura sarebbe. Chiudo gli occhi, mi giro sul fianco sano. Tocco il mio seno sano, quando le ferite della radio saranno rimarginate, potrò farmelo ricostruire, ad immagine e somiglianza del seno indenne. Quando. Se. Matteo. Michele. Io.
Sono stanca. Chiudo gli occhi, una mezz'ora.
Poi vado a giocare con Matteo.