Anni fa, in occasione di un capodanno, proclamai: "Da domani
non metterò più zucchero nel caffè." Così feci, e così
continuo a fare.
Durante lo scorso capodanno, prima pensai e poi dissi: "Quest'anno
voglio correre la maratona."
Di sicuro, tener fede alla prima intenzione è stato più facile
rispetto alla seconda. Ci pensavo ieri, sotto la pioggia battente,
con le mani intirizzite dal freddo, quando mi
mancavano quattro infiniti chilometri alla fine della maratona. Fino
a quel momento avevo avuto diversi momenti di difficoltà - un dolore
al tendine sinistro, il muro psicologico dei trenta chilometri, la
stringa sciolta che non sono riuscito più a legare a dieci
chilometri dalla fine, un accenno di crampi ai polpacci - ma niente
in confronto a quegli ultimi chilometri sulle mura di Lucca. Avevo
una gran voglia di mettermi a camminare, di piantarla lì. Di porre
fine a quella infinita fatica.
E ci ho anche pensato – che non mettere zucchero nel caffè sia
più facile che correre una maratona -durante tutto quest'anno,
perché l'intenzione di correre una maratona richiede preparazione,
regolarità, programmazione. Richiede, a monte della maratona, un
dispendio di tempo ed energie da cui non si può prescindere,
soprattutto a 51 anni.
Da capodanno fino ad ora, ho cercato di correre almeno tre volte
alla settimana, pensando a quel lontano San Silvestro di 33 anni fa
in cui, a soli 18 anni corsi a Roma la maratona, piazzandomi al
decimo posto assoluto, lasciandomi dietro 9990 persone. Temevo che
sarebbe stata l'unica maratona della mia vita. Dopo trentatré anni,
però, gli obiettivi e la visione del mondo cambiano, nonché,
soprattutto, il vigore fisico. Bisogna mettere da parte il
cronometro, essere concreti e realistici, un po' disincantati –
anche nella vita – e più indulgenti con sé stessi e i propri
sbagli, altrimenti il paragone diventa impietoso.
In realtà in questi dieci mesi non ho fatto una scrupolosa
programmazione, soprattutto se guardo i pochissimi allenamenti
qualitativi: una sola seduta di ripetute( un 7x1000 in pista), 5
sedute di salite, una quindicina di allenamenti con variazioni di
ritmo. Ho perlopiù corso e pensato. Grazie alle mie gambe che si
muovevano, che appoggiavano un piede dopo l'altro, che sfruttavano la
fase di volo e si occupavano del successivo atterraggio, grazie ai
miei polmoni che succhiavano aria per scambiarla con anidride
carbonica, al mio sudore che abbassava la temperatura interna, alle
mie braccia che oscillavano avanti e indietro per dare il miglior
equilibrio possibile; grazie a tutto questo ed altro ancora contenuto
nel mio complicato e misterioso corpo di essere umano, ho avuto la
possibilità di pensare e di godere delle mie emozioni, di pensare e
sentire correndo. Spesso ho avuto la possibilità di correre con la
bellezza che mi scorreva accanto: nella macchia mediterranea tra
Piombino e Populonia, nella pineta di San Vincenzo, nel lungomare
del promontorio di Milazzo, nel parco Sempione di Milano, su per la
salita del monte Morello a Firenze, sulle mura di Lucca. Quasi sempre
all'alba, prima che il mondo ricominci a far chiasso.
E' stato un anno difficile, purtroppo, per un grosso problema che
non posso e non voglio spiegare qui, che per fortuna si sta pian
piano risolvendo; le nubi grigie, dopo diverse terribili tempeste, si
stanno dileguando, e si intravedono all'orizzonte sprazzi di cielo
pulito. In quest'anno difficile, gli allenamenti, soprattutto quelli
intrisi di bellezza, sono stati per me preziosi, per pensare e
decidere. E per godere del qui e dell'ora.
Poiché mi piace caricare di senso tutto ciò che faccio, anche se
– parafrasando Vasco Rossi – un senso non ce l'ha, mi piace
pensare che la pioggia torrenziale ed il freddo pungente di ieri
abbiano potuto esaltare il fascino di epopea e leggenda che la
maratona esercita con un consenso pressoché planetario. Il mio
ritorno alla maratona, dunque, si è caricato di un valore aggiunto
provocato dagli agenti metereologici – pioggia, freddo, vento –
che trasformano la corsa in un viaggio omerico, con una partenza, un
allontanamento, delle difficoltà da superare, e un ritorno entro le
mura arborate della città antica.
Una maratona è infinita. Potrei
pensare alla corsa di ieri ogni sera per un mese intero, ed ogni
volta rievocare gli odori, i passi, il respiro, i dolori alle gambe, le pozzanghere, le
musiche, gli automobilisti incazzati, le persone che ti applaudivano
e ti incoraggiavano lungo il percorso, i compagni di corsa...ogni
volta, dicevo, sempre in modi e sfaccettature diverse. Occorre
affrontare l'infinito di una maratona con concentrazione, calma:
occorre la testa ed il cuore.
Negli ultimi quattro chilometri stavo perdendo la testa. Cercavo
di farmi forza pensando al successivo cartello, quello dei trentotto,
trentanove chilometri, fino al cartello dell'ultimo chilometro. Prima
della gara pensavo che, una volta arrivato sulle mura di Lucca, mi
sarei sentito al sicuro, invece mi ero sbagliato. Negli ultimi
quattro chilometri, a costo di risultare spudoratamente cliché, le
sole cose che mi hanno fatto progredire sono stati i pensieri
positivi: i bellissimi dieci mesi di allenamenti finalizzati a questa
esperienza, la faccia di mio padre, i miei figli, le note del
Bolero di Ravel,. Un crescendo, fino alla gioia degli ultimi duecento
metri, in cui ho avuto la forza e la voglia di allungare il passo e
di godermi alcuni scorci di Lucca con gli occhi stupiti che può
avere un turista giapponese, fermando la mia corsa dopo tre ore e ventinove minuti. In compagnia dell'amico Carlo, che ha
ripercorso gli ultimi metri con me, con cui avevo condiviso una buona
parte della strada. Con il mio amico Arturo, che mi attendeva
all'arrivo, invisibile artefice della foto qui sotto.
Happiness is real only when shared, sostiene Chris Mc Candless in
Into The Wild, e così stasera ho voluto condividere un pezzetto
della mia felicità con chi mi sta leggendo.