A oggi, dodici novembre 2011, fanno trentatré anni.
Trentatré anni di vita, la mia, senza quella di papà. Mi verrebbe da dire babbo, proprio come mi chiamano i miei figli, ma si dà il caso che a Milazzo "babbo" significhi "scemo", e lui non ci ha mai permesso di chiamarlo così. Io ho cinquanta anni, e cinquanta meno trentatré fa diciassette. Tra un anno, senza di lui avrò passato il doppio degli anni che ho vissuto con lui. Eppure me li ricordo bene, quei diciassette anni, ne sono rimasto molto legato; qualcuno potrebbe dire che questo scrivere su eventi così lontani con punte di dispiacere, nostalgia e dolore sia patetico e patologico, e forse è così.
Mi manca ancora, come mi mancava quando si assentava in vita.
Ogni estate trascorrevamo un paio di mesi in Calabria e Sicilia, dai parenti, e papà ci raggiungeva solo nelle ultime due settimane. Mi mancava. Così come quando andò un paio di settimane a Firenze, durante l'alluvione del 1966. Avevo cinque anni, e mi mancava molto. Ma avevo la consapevolezza che sarebbe tornato, e tornava puntualmente. Mi è stato difficile, a diciassette anni, pensare che non sarebbe più tornato. Anche se durante il suo ultimo anno di vita, durante la sua penosa malattia, qualche volta gli ho augurato la morte. Ora è proprio quel momento, le 19 e dieci del dodici novembre. Quelle sette e dieci di sera sono state un crinale, un valico tra un prima e un poi, e io non sono bravo a fare tutti quei discorsi sul dolore che fortifica. Penso di più al fatto che mio padre per i miei figli sarebbe stato un nonno straordinario. Al fatto che si sarebbe rallegrato delle mie piccole gioie quotidiane e forse avrebbe sorriso con indulgenza dei miei sbagli, sui quali spesso mi logoro.
Ho scritto un libro e gliel'ho dedicato.
Mi manca il suo modo di raccontare, lento e cantilenante, un po' pedante ma proprio per questo estremamente preciso nel dettaglio. Spesso, mentre lui parlava con qualche amico invitato a cena, lo stavo ad ascoltare, che parlasse di caccia, politica, di qualche ladro o assassino catturato nella Sila, della guerra. Non importa, io stavo ad ascoltarlo. E in seguito, quando si ammalò, stavo ancora ad ascoltarlo, incredulo del fatto che di lì a qualche mese se ne sarebbe andato.
Mi mancano le sue dimostrazioni di affetto: baci, abbracci, ed inoltre a lui piaceva tenermi sulle ginocchia.
A distanza di trentatré anni penso a lui con maggiore serenità, anche se a volte mi manca ancora.
Negli anni immediatamente successivi alla sua morte, l'ho sempre sognato malato.
In seguito l'ho rivisto sano, positivo, concreto, e questo mi fa piacere.
Tre anni fa ho attraversato tutta la Sicilia in bici, da Trapani a Milazzo, fino alla sua tomba.
E da quel momento me lo sono rivisto sorridente.
Ciao papà, ovunque tu sia, e anche se tu esistessi solo nella mente di chi ti ha voluto bene, ci sei.
Trentatré anni di vita, la mia, senza quella di papà. Mi verrebbe da dire babbo, proprio come mi chiamano i miei figli, ma si dà il caso che a Milazzo "babbo" significhi "scemo", e lui non ci ha mai permesso di chiamarlo così. Io ho cinquanta anni, e cinquanta meno trentatré fa diciassette. Tra un anno, senza di lui avrò passato il doppio degli anni che ho vissuto con lui. Eppure me li ricordo bene, quei diciassette anni, ne sono rimasto molto legato; qualcuno potrebbe dire che questo scrivere su eventi così lontani con punte di dispiacere, nostalgia e dolore sia patetico e patologico, e forse è così.
Mi manca ancora, come mi mancava quando si assentava in vita.
Ogni estate trascorrevamo un paio di mesi in Calabria e Sicilia, dai parenti, e papà ci raggiungeva solo nelle ultime due settimane. Mi mancava. Così come quando andò un paio di settimane a Firenze, durante l'alluvione del 1966. Avevo cinque anni, e mi mancava molto. Ma avevo la consapevolezza che sarebbe tornato, e tornava puntualmente. Mi è stato difficile, a diciassette anni, pensare che non sarebbe più tornato. Anche se durante il suo ultimo anno di vita, durante la sua penosa malattia, qualche volta gli ho augurato la morte. Ora è proprio quel momento, le 19 e dieci del dodici novembre. Quelle sette e dieci di sera sono state un crinale, un valico tra un prima e un poi, e io non sono bravo a fare tutti quei discorsi sul dolore che fortifica. Penso di più al fatto che mio padre per i miei figli sarebbe stato un nonno straordinario. Al fatto che si sarebbe rallegrato delle mie piccole gioie quotidiane e forse avrebbe sorriso con indulgenza dei miei sbagli, sui quali spesso mi logoro.
Ho scritto un libro e gliel'ho dedicato.
Mi manca il suo modo di raccontare, lento e cantilenante, un po' pedante ma proprio per questo estremamente preciso nel dettaglio. Spesso, mentre lui parlava con qualche amico invitato a cena, lo stavo ad ascoltare, che parlasse di caccia, politica, di qualche ladro o assassino catturato nella Sila, della guerra. Non importa, io stavo ad ascoltarlo. E in seguito, quando si ammalò, stavo ancora ad ascoltarlo, incredulo del fatto che di lì a qualche mese se ne sarebbe andato.
Mi mancano le sue dimostrazioni di affetto: baci, abbracci, ed inoltre a lui piaceva tenermi sulle ginocchia.
A distanza di trentatré anni penso a lui con maggiore serenità, anche se a volte mi manca ancora.
Negli anni immediatamente successivi alla sua morte, l'ho sempre sognato malato.
In seguito l'ho rivisto sano, positivo, concreto, e questo mi fa piacere.
Tre anni fa ho attraversato tutta la Sicilia in bici, da Trapani a Milazzo, fino alla sua tomba.
E da quel momento me lo sono rivisto sorridente.
Ciao papà, ovunque tu sia, e anche se tu esistessi solo nella mente di chi ti ha voluto bene, ci sei.
Ci sei