E' il nove agosto 2006, mi trovo in un treno e sto guardando il paesaggio che sfreccia oltre il vetro.
Fino all'ultimo momento non ero sicuro di fare questa vacanza.
Sarebbe dovuto venire mio nipote insieme con me, ma ha dato forfait due giorni prima della partenza: è in crisi perchè la sua ragazza l'ha mollato; poi sono venuti dei dubbi anche a me, relativi all'opportunità di fare questa vacanza da solo.
A Nizza il treno arriva con molta calma, perdo la coincidenza e telefono all'albergo di Avignone per avvertire del gran ritardo; loro mi rispondono - dei gran signori, non c'è che dire - che non mi possono tenere la camera che avevo prenotato. Telefono all'ufficio del turismo di Avignone, e dopo alcuni tentativi trovo un'altro hotel vicino alla stazione. Arrivo ad Avignone alle dieci di sera invece che alle sette, con la sacca portabici appresso - un coso nero enorme che non entrava nello scompartimento e destava la curiosità degli altri passeggeri - e tre borse. Telefono a mia moglie, è estremamente agitata e non si sente bene, tanto che non so se domattina sarà meglio tornare a casa. Passo la notte insonne. Stamani è tranquilla, l'indisposizione era stata una nube passeggera, e così alle dieci e mezzo del mattino del mattino finisco di montare la bici e gli zaini sulla bici, e mi dirigo verso il Mont Ventoux, la vacanza in Provenza ha inizio.Fino all'ultimo momento non ero sicuro di fare questa vacanza.
Sarebbe dovuto venire mio nipote insieme con me, ma ha dato forfait due giorni prima della partenza: è in crisi perchè la sua ragazza l'ha mollato; poi sono venuti dei dubbi anche a me, relativi all'opportunità di fare questa vacanza da solo.
Anche se i dubbi non si sono ancora dissolti del tutto.
L'uscita dalla città di Avignone non è dei migliori auspici: non ho alternative alla strada D942, non è altro che una superstrada a quattro corsie. Per fortuna c'è una striscia di asfalto - non la chiamerei corsia di emergenza, si monterebbe la testa - che mi permette di non sentire gli specchietti laterali destri delle auto in assetto da gran premio sul mio orecchio sinistro. Questa storia continua per venti chilometri fino a Monteux, dove esco e trovo una strada più umana. Mi fermo per un caffè, un succo di frutta, e un'occhiata alla cartina. La giornata è serena, ma tira vento(comincio a capire il significato oscuro di un paio di indicazioni che avevo notato: Hotel Mistral, avenue du mistral), un vento fresco.
Una volta attraversata Carpentras, la strada si fa leggermente più tortuosa e comincia a salire, ma poco. Il paesaggio è collinare - ricorda un po' la parte interna della Toscana - con vigneti ed olivi, costellati di cipressi, qualche casa colonica con l'edera sul muro. All'orizzonte vedo per la prima volta la cima del mont Ventoux: è bianca, e da questa distanza potrebbe essere scambiata per neve, ma il calore del sole mi riporta prontamente alla realtà dell'estate.
Altre due ore di bicicletta su strada costantemente fotogenica, poi la strada si fa un pochino più ripida prima di arrivare alla base del monte. Ho percorso quarantanove chilometri, sono le due, e mi trovo a Malaucene, un paesino a 340 metri sul livello del mare. Faccio un giretto dentro il centro storico del paese, munito di porta medievale e viuzze in saliscendi, con case colorate come in un quadro naif. Mi fermo per mangiare un panino - si fa per dire, una baguette lunga mezzo metro con jambon e fromage - che non riesco a finire, l'avanzo lo metto nello zaino, così come un succo di frutta e due borracce d'acqua, e riparto. Sono le tre.
Il paesaggio ben presto si trasforma da collinare a montano, con pini, abeti, faggi e larici. Un cartello turistico mi ricorda che mancano ventun chilometri alla sommità, alta 1909 metri slm. Il primo tratto di salita non è arduo ma, tanto per vedere la bottiglia mezza vuota, una pendenza inferiore alla pendenza media dell'intero percorso (7,5%) è una specie di cambiale che si deve pagare prima della cima. Cerco di concentrarmi sul presente, sulla singola pedalata, sul panorama che la montagna mi offre istante per istante.
Mi solleva pensare che Francesco Petrarca nel 1336 sia passato di qui, a piedi. Insomma, forse non è una questione meramente sportiva venire da queste parti. Forse pensava a Donna Laura. Qui il pensiero diventa selettivo, si sofferma sull'essenza, su ciò che ritieni importante nella vita, non c'è spazio per le cianfrusaglie. C'è un silenzio quasi imbarazzante, almeno all'inizio, lo chiamerei un silenzio antico, modificato di poco nel corso del tempo. Poi pian piano mi abituo, anzi, mi lascio cullare da questa totale assenza di suoni, a parte l'affanno del mio respiro. Il silenzio si arricchisce di solitudine, ormai Malaucene è un ricordo di viaggio, il prossimo centro abitato è distante più di trenta chilometri. Il viaggio procede con gran lentezza, sono le cinque, ho percorso solo dieci chilometri e mi trovo a mille metri di altezza.
Mi fermo, e guardo il panorama che si apre alla mia sinistra, verso nord: intravedo tre dorsali di catene montuose abbastanza lontane, che si perdono quasi all'orizzonte, quasi nel mezzo della Francia e boschi, boschi, boschi. Telefono a Sault per avvertire l'albergo che arriverò molto tardi, menomale che questi non fanno storie. Rimonto in bici, la pedalata di avvio è piuttosto dura. Una pietra miliare mi informa che il prossimo chilometro avrà una pendenza media del 10,5%. Dopo un paio di tornanti la strada, in effetti, si irripidisce di colpo. Il mio affanno aumenta, le gambe non girano.
Mi fermo di nuovo. Bevo il succo di frutta, bevo l'acqua. Dopo qualche minuto riparto. Comincio a fare quelle stupide serpentine che ti attenuano la pendenza, ma che ti raddoppiano la lunghezza del percorso.
Mi fermo ancora. Decido che ripartirò quando le pulsazioni cardiache saranno scese sotto le cento al minuto. Mi metto supino a guardare il cielo, steso tra i sassi del ciglio della strada. Passa una macchina, si ferma, e una signora mi chiede se ho bisogno di aiuto. Faccio dei rassicuranti cenni di no - non so il francese, e non ho la lucidità necessaria per organizzare una risposta in inglese, ammesso che la signora lo capisca - e sfoggio un sorriso a trentadue denti, la macchina riparte.
Mi metto a fare qualche foto, altri cinque minuti e sono a 100 pulsazioni, riparto.
La fatica non mi abbandona, ma perlomeno mi muovo, ce la faccio a muovermi.
Perché non giro la bici e torno a Malaucene?
Non me la sento.
Che devo dimostrare?
Che ce la posso fare.
A fare cosa?
A farcela.
A fare cosa, prego?
A farcela.
No, questa non è una risposta. E' come quando fai notare ad una persona un difetto, o qualcosa che non va, e ti risponde: "Io sono fatto così".
La pietra miliare successiva intanto mi conforta con un 8%.
Devo dimostrare che ce la posso fare a percorrere questa salita.
E poi?
Niente. La salita, la strada è un concetto etereo, specie quando non la condividi. "La strada insieme" suona meglio. "Ha fatto tanta strada", è un concetto troppo individualista, e inoltre non ha fatto niente, non è che abbia costruito una strada con massicciata e asfalto e vernice; e come metafora è francamente un po' logora. La sto facendo troppo pallosa, in fondo è una salita, nient'altro.
Se mi fermerò ancora, se non ce la farò, potrò tornare a Malaucene, girerò la bici e farò la discesa, un'allegra discesa. Bisogna però avere il coraggio di non farcela.
Oppure potrei raccontare che ce l'ho fatta, tanto chi mi vede? Non vedo nessuno, non parlo con nessuno, nessuno mi vede e mi sente. Non esisto. Solo alberi, e il vento che ogni tanto mi parla. Vorrei fare una cosa al di sopra delle mie possibilità. "...Penso a delusioni, a grandi imprese, a una tailandeeese ma l'impresa eccezionale, dammi retta è essere normale...". Normale, sì. Pensai a questa canzone anche molti anni fa, a Bologna, "... gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino..." e io ce la feci a perdermi, caro Lucio. Anche in quel caso volevo compiere un'impresa eccezionale. Vedevo già il titolo sul giornale: "Si perde a Bologna, e non è di Berlino."
Altro chilometro, intanto. Il pensiero delirante in qualche modo mi aiuta a sentire meno la fatica.
Mi aspettano altri due chilometri al 10%. Mi fermo e finisco di mangiare il panino, acqua.
Finita l'acqua.
Sono al quattordicesimo chilometro, sono le sei. Il mio contachilometri sulla bici, a tratti segna 0, perchè sotto i cinque chilometri all'ora non si sforza di dirti la velocità istantanea. Forse non vuole farti rimanere male, forse il mio contachilometri ha una grande sensibilità. E' come se mi parlasse con un gran tatto e mi dicesse: "Senti, non te lo vorrei proprio dire, ma... stai andando a 4,2 chilometri l'ora, meglio che non lo scriva. Amici come prima?" La salita si addolcisce un po', e riesco a guardare anche il panorama. Solo abeti, poi si apre una radura. C'è uno spiazzo erboso, e dopo la curva c'è un bar ristorante con dei tavolini fuori.
Non mi sembra vero.
Entro e chiedo due succhi d'arancia, una bottigliona d'acqua. Mi siedo ad un tavolino fuori in un deserto di vento, tipo nel film "Bagdad Cafè", non so da dove cominciare, poi mi aggrappo al succo, che finisco in un fiat. Poi mi aggrappo al secondo succo, vedi sopra. Poi bevo un po' d'acqua e col resto riempio le borracce.
Intanto arriva un tipo in bici dall'alto, un deus ex machina che si ferma e mi saluta. Parliamo in inglese, mi dice che viene proprio da lassù, e sta tornando a Malaucene, mi assicura che gli ultimi cinque chilometri non sono terribili, la notizia mi rallegra di molto.
Lui viene dalla Scozia, io dall'Italia.
Bene.
Poi mi dice che non è bene fare questa salita con tutte questi zaini. Lo guardo incredulo mentre indica i miei zaini, non c'è possibilità di sbagliarsi. Non è come in mongolfiera, mi verrebbe da dire, non posso buttare via magliette e pantaloni per alleggerirmi. Poichè non so come si dica mongolfiera in inglese, gli rispondo che ci penserò per il prossimo viaggio, poi mi limito ad allargare le braccia e ringraziarlo, anche se non so di cosa. A non sapere bene una lingua, spesso si fa la figura da deficiente.
Rimonto in bici, sto un po' meglio, e riparto. Sono le sei e quaranta. Una pietra miliare mi saluta con un 10,9%. Mando mentalmente affanculo lo scozzese, ma forse non voleva scoraggiarmi, proprio come non lo voleva il contachilometri. Ma ormai mancano cinque chilometri, non posso mollare.
"Non puoi mollare" me lo diceva il mio allenatore, quando avevo quindici anni. Era un rompicoglioni che in parte mi ha oscurato la freschezza di quel bellissimo periodo. Quando non andavo agli allenamenti mi telefonava a casa. E poi con qualsiasi condizione climatica facevo i miei bravi sei allenamenti di corsa a settimana(nell'anno della quinta liceo ne facevo otto). E quando c'era la seduta di tecnica(miglioramento dello stile di corsa, per ottenere una corsa più efficace) era tutta una serie di urli:"Finisci le spinte delle gambe" " Non stare col culo basso" "Non atterrare di tallone" e altri ancora. E io coglione, li in silenzio. Non serve a niente stare in silenzio. Ho imparato a controllarmi, ma questo significa tenere le proprie emozioni dentro. Ed è una cazzata.
In cambio avevo il riconoscimento altrui perchè correvo forte. Ed è una cazzata anche questa. Ero così insicuro che avevo bisogno di riconoscimenti ufficiali, di piazzamenti. Che palle.
Qui però sono solo, è diverso.
Dopo un chilometro di rancore, la vegetazione si dirada, alzo la testa e riesco a vedere la cima del monte dove hanno piazzato una stazione metereologica con la forma e i colori di un faro, non è poi male.
La pendenza si attenua un po' e dopo qualche centinaio di metri non c'è più un filo d'erba, solo sassi bianchi di varie dimensioni.
Il vento è un po' più forte, adesso. Il vento è la causa di questa mancanza di vegetazione.
Non fosse per questo cielo turchese, di una tonalità così satura che sembra dipinto, direi che un paesaggio lunare me lo immagino proprio così.
Niente case, niente alberi, solo una serpentina d'asfalto che taglia una pietraia immensa.
Il faro si avvicina.
Mi fermo altre tre volte a prendere fiato.
Qualche tornante prima della vetta c'è anche una specie di gigantesco igloo color acciaio inox, forse un osservatorio astronomico, o forse gli alieni che hanno invaso la luna.
Arrivo finalmente in cima a 1912 metri di altezza, prostrato e - forse stupidamente - soddisfatto. Sono le otto meno venti, per fortuna qui c'è una mezz'ora in più di luce rispetto alla Toscana, scendo con difficoltà dalla bici, in parte per gli zainetti, in parte per il vento. Appoggio la bici sulla roccia, ma viene sbatacchiata giù dal vento. Il tempo di infilare la giacca a vento, di bere un sorso e riparto per la lunga discesa di ventitrè chilometri.
Appena un chilometro più giù mi fermo per fare la foto alla lapide commemorativa di Tommie Simpson, un ciclista morto di infarto durante il tour de France del 1967. Qualche altro chilometro e comincia un fitto bosco, sto battendo i denti dal freddo.
Alle nove e un quarto arrivo a Sault, mi fiondo in albergo, alle dieci esco per scoprire che tutti i ristoranti del paese hanno già chiuso le cucine, i bar sono chiusi. Non mi resta che tornare in albergo e dare l'assalto ad un distributore automatico di merendine e bibite.
Fra i cinque snacks che mangio assegno la palma d'oro del miglior gusto al Kit-kat.
Sto per salire in camera, poi mi ricordo che è la notte di San Lorenzo. Esco, trovo una piazzetta isolata, mi stendo su un muretto, con cuffiette sottofondo di Coldplay, Fossati e Battiato.
Lo spettacolo comincia, il cielo stellato sopra di me.
Ci vuole una buona mezz'ora prima di vedere una virgola luminosa nel cielo, tanto non c'è fretta.
Non desidero altro che essere qui.
Ora.
L'uscita dalla città di Avignone non è dei migliori auspici: non ho alternative alla strada D942, non è altro che una superstrada a quattro corsie. Per fortuna c'è una striscia di asfalto - non la chiamerei corsia di emergenza, si monterebbe la testa - che mi permette di non sentire gli specchietti laterali destri delle auto in assetto da gran premio sul mio orecchio sinistro. Questa storia continua per venti chilometri fino a Monteux, dove esco e trovo una strada più umana. Mi fermo per un caffè, un succo di frutta, e un'occhiata alla cartina. La giornata è serena, ma tira vento(comincio a capire il significato oscuro di un paio di indicazioni che avevo notato: Hotel Mistral, avenue du mistral), un vento fresco.
Una volta attraversata Carpentras, la strada si fa leggermente più tortuosa e comincia a salire, ma poco. Il paesaggio è collinare - ricorda un po' la parte interna della Toscana - con vigneti ed olivi, costellati di cipressi, qualche casa colonica con l'edera sul muro. All'orizzonte vedo per la prima volta la cima del mont Ventoux: è bianca, e da questa distanza potrebbe essere scambiata per neve, ma il calore del sole mi riporta prontamente alla realtà dell'estate.
Altre due ore di bicicletta su strada costantemente fotogenica, poi la strada si fa un pochino più ripida prima di arrivare alla base del monte. Ho percorso quarantanove chilometri, sono le due, e mi trovo a Malaucene, un paesino a 340 metri sul livello del mare. Faccio un giretto dentro il centro storico del paese, munito di porta medievale e viuzze in saliscendi, con case colorate come in un quadro naif. Mi fermo per mangiare un panino - si fa per dire, una baguette lunga mezzo metro con jambon e fromage - che non riesco a finire, l'avanzo lo metto nello zaino, così come un succo di frutta e due borracce d'acqua, e riparto. Sono le tre.
Il paesaggio ben presto si trasforma da collinare a montano, con pini, abeti, faggi e larici. Un cartello turistico mi ricorda che mancano ventun chilometri alla sommità, alta 1909 metri slm. Il primo tratto di salita non è arduo ma, tanto per vedere la bottiglia mezza vuota, una pendenza inferiore alla pendenza media dell'intero percorso (7,5%) è una specie di cambiale che si deve pagare prima della cima. Cerco di concentrarmi sul presente, sulla singola pedalata, sul panorama che la montagna mi offre istante per istante.
Mi solleva pensare che Francesco Petrarca nel 1336 sia passato di qui, a piedi. Insomma, forse non è una questione meramente sportiva venire da queste parti. Forse pensava a Donna Laura. Qui il pensiero diventa selettivo, si sofferma sull'essenza, su ciò che ritieni importante nella vita, non c'è spazio per le cianfrusaglie. C'è un silenzio quasi imbarazzante, almeno all'inizio, lo chiamerei un silenzio antico, modificato di poco nel corso del tempo. Poi pian piano mi abituo, anzi, mi lascio cullare da questa totale assenza di suoni, a parte l'affanno del mio respiro. Il silenzio si arricchisce di solitudine, ormai Malaucene è un ricordo di viaggio, il prossimo centro abitato è distante più di trenta chilometri. Il viaggio procede con gran lentezza, sono le cinque, ho percorso solo dieci chilometri e mi trovo a mille metri di altezza.
Mi fermo, e guardo il panorama che si apre alla mia sinistra, verso nord: intravedo tre dorsali di catene montuose abbastanza lontane, che si perdono quasi all'orizzonte, quasi nel mezzo della Francia e boschi, boschi, boschi. Telefono a Sault per avvertire l'albergo che arriverò molto tardi, menomale che questi non fanno storie. Rimonto in bici, la pedalata di avvio è piuttosto dura. Una pietra miliare mi informa che il prossimo chilometro avrà una pendenza media del 10,5%. Dopo un paio di tornanti la strada, in effetti, si irripidisce di colpo. Il mio affanno aumenta, le gambe non girano.
Mi fermo di nuovo. Bevo il succo di frutta, bevo l'acqua. Dopo qualche minuto riparto. Comincio a fare quelle stupide serpentine che ti attenuano la pendenza, ma che ti raddoppiano la lunghezza del percorso.
Mi fermo ancora. Decido che ripartirò quando le pulsazioni cardiache saranno scese sotto le cento al minuto. Mi metto supino a guardare il cielo, steso tra i sassi del ciglio della strada. Passa una macchina, si ferma, e una signora mi chiede se ho bisogno di aiuto. Faccio dei rassicuranti cenni di no - non so il francese, e non ho la lucidità necessaria per organizzare una risposta in inglese, ammesso che la signora lo capisca - e sfoggio un sorriso a trentadue denti, la macchina riparte.
Mi metto a fare qualche foto, altri cinque minuti e sono a 100 pulsazioni, riparto.
La fatica non mi abbandona, ma perlomeno mi muovo, ce la faccio a muovermi.
Perché non giro la bici e torno a Malaucene?
Non me la sento.
Che devo dimostrare?
Che ce la posso fare.
A fare cosa?
A farcela.
A fare cosa, prego?
A farcela.
No, questa non è una risposta. E' come quando fai notare ad una persona un difetto, o qualcosa che non va, e ti risponde: "Io sono fatto così".
La pietra miliare successiva intanto mi conforta con un 8%.
Devo dimostrare che ce la posso fare a percorrere questa salita.
E poi?
Niente. La salita, la strada è un concetto etereo, specie quando non la condividi. "La strada insieme" suona meglio. "Ha fatto tanta strada", è un concetto troppo individualista, e inoltre non ha fatto niente, non è che abbia costruito una strada con massicciata e asfalto e vernice; e come metafora è francamente un po' logora. La sto facendo troppo pallosa, in fondo è una salita, nient'altro.
Se mi fermerò ancora, se non ce la farò, potrò tornare a Malaucene, girerò la bici e farò la discesa, un'allegra discesa. Bisogna però avere il coraggio di non farcela.
Oppure potrei raccontare che ce l'ho fatta, tanto chi mi vede? Non vedo nessuno, non parlo con nessuno, nessuno mi vede e mi sente. Non esisto. Solo alberi, e il vento che ogni tanto mi parla. Vorrei fare una cosa al di sopra delle mie possibilità. "...Penso a delusioni, a grandi imprese, a una tailandeeese ma l'impresa eccezionale, dammi retta è essere normale...". Normale, sì. Pensai a questa canzone anche molti anni fa, a Bologna, "... gli ho detto che nel centro di Bologna non si perde neanche un bambino..." e io ce la feci a perdermi, caro Lucio. Anche in quel caso volevo compiere un'impresa eccezionale. Vedevo già il titolo sul giornale: "Si perde a Bologna, e non è di Berlino."
Altro chilometro, intanto. Il pensiero delirante in qualche modo mi aiuta a sentire meno la fatica.
Mi aspettano altri due chilometri al 10%. Mi fermo e finisco di mangiare il panino, acqua.
Finita l'acqua.
Sono al quattordicesimo chilometro, sono le sei. Il mio contachilometri sulla bici, a tratti segna 0, perchè sotto i cinque chilometri all'ora non si sforza di dirti la velocità istantanea. Forse non vuole farti rimanere male, forse il mio contachilometri ha una grande sensibilità. E' come se mi parlasse con un gran tatto e mi dicesse: "Senti, non te lo vorrei proprio dire, ma... stai andando a 4,2 chilometri l'ora, meglio che non lo scriva. Amici come prima?" La salita si addolcisce un po', e riesco a guardare anche il panorama. Solo abeti, poi si apre una radura. C'è uno spiazzo erboso, e dopo la curva c'è un bar ristorante con dei tavolini fuori.
Non mi sembra vero.
Entro e chiedo due succhi d'arancia, una bottigliona d'acqua. Mi siedo ad un tavolino fuori in un deserto di vento, tipo nel film "Bagdad Cafè", non so da dove cominciare, poi mi aggrappo al succo, che finisco in un fiat. Poi mi aggrappo al secondo succo, vedi sopra. Poi bevo un po' d'acqua e col resto riempio le borracce.
Intanto arriva un tipo in bici dall'alto, un deus ex machina che si ferma e mi saluta. Parliamo in inglese, mi dice che viene proprio da lassù, e sta tornando a Malaucene, mi assicura che gli ultimi cinque chilometri non sono terribili, la notizia mi rallegra di molto.
Lui viene dalla Scozia, io dall'Italia.
Bene.
Poi mi dice che non è bene fare questa salita con tutte questi zaini. Lo guardo incredulo mentre indica i miei zaini, non c'è possibilità di sbagliarsi. Non è come in mongolfiera, mi verrebbe da dire, non posso buttare via magliette e pantaloni per alleggerirmi. Poichè non so come si dica mongolfiera in inglese, gli rispondo che ci penserò per il prossimo viaggio, poi mi limito ad allargare le braccia e ringraziarlo, anche se non so di cosa. A non sapere bene una lingua, spesso si fa la figura da deficiente.
Rimonto in bici, sto un po' meglio, e riparto. Sono le sei e quaranta. Una pietra miliare mi saluta con un 10,9%. Mando mentalmente affanculo lo scozzese, ma forse non voleva scoraggiarmi, proprio come non lo voleva il contachilometri. Ma ormai mancano cinque chilometri, non posso mollare.
"Non puoi mollare" me lo diceva il mio allenatore, quando avevo quindici anni. Era un rompicoglioni che in parte mi ha oscurato la freschezza di quel bellissimo periodo. Quando non andavo agli allenamenti mi telefonava a casa. E poi con qualsiasi condizione climatica facevo i miei bravi sei allenamenti di corsa a settimana(nell'anno della quinta liceo ne facevo otto). E quando c'era la seduta di tecnica(miglioramento dello stile di corsa, per ottenere una corsa più efficace) era tutta una serie di urli:"Finisci le spinte delle gambe" " Non stare col culo basso" "Non atterrare di tallone" e altri ancora. E io coglione, li in silenzio. Non serve a niente stare in silenzio. Ho imparato a controllarmi, ma questo significa tenere le proprie emozioni dentro. Ed è una cazzata.
In cambio avevo il riconoscimento altrui perchè correvo forte. Ed è una cazzata anche questa. Ero così insicuro che avevo bisogno di riconoscimenti ufficiali, di piazzamenti. Che palle.
Qui però sono solo, è diverso.
Dopo un chilometro di rancore, la vegetazione si dirada, alzo la testa e riesco a vedere la cima del monte dove hanno piazzato una stazione metereologica con la forma e i colori di un faro, non è poi male.
La pendenza si attenua un po' e dopo qualche centinaio di metri non c'è più un filo d'erba, solo sassi bianchi di varie dimensioni.
Il vento è un po' più forte, adesso. Il vento è la causa di questa mancanza di vegetazione.
Non fosse per questo cielo turchese, di una tonalità così satura che sembra dipinto, direi che un paesaggio lunare me lo immagino proprio così.
Niente case, niente alberi, solo una serpentina d'asfalto che taglia una pietraia immensa.
Il faro si avvicina.
Mi fermo altre tre volte a prendere fiato.
Qualche tornante prima della vetta c'è anche una specie di gigantesco igloo color acciaio inox, forse un osservatorio astronomico, o forse gli alieni che hanno invaso la luna.
Arrivo finalmente in cima a 1912 metri di altezza, prostrato e - forse stupidamente - soddisfatto. Sono le otto meno venti, per fortuna qui c'è una mezz'ora in più di luce rispetto alla Toscana, scendo con difficoltà dalla bici, in parte per gli zainetti, in parte per il vento. Appoggio la bici sulla roccia, ma viene sbatacchiata giù dal vento. Il tempo di infilare la giacca a vento, di bere un sorso e riparto per la lunga discesa di ventitrè chilometri.
Appena un chilometro più giù mi fermo per fare la foto alla lapide commemorativa di Tommie Simpson, un ciclista morto di infarto durante il tour de France del 1967. Qualche altro chilometro e comincia un fitto bosco, sto battendo i denti dal freddo.
Alle nove e un quarto arrivo a Sault, mi fiondo in albergo, alle dieci esco per scoprire che tutti i ristoranti del paese hanno già chiuso le cucine, i bar sono chiusi. Non mi resta che tornare in albergo e dare l'assalto ad un distributore automatico di merendine e bibite.
Fra i cinque snacks che mangio assegno la palma d'oro del miglior gusto al Kit-kat.
Sto per salire in camera, poi mi ricordo che è la notte di San Lorenzo. Esco, trovo una piazzetta isolata, mi stendo su un muretto, con cuffiette sottofondo di Coldplay, Fossati e Battiato.
Lo spettacolo comincia, il cielo stellato sopra di me.
Ci vuole una buona mezz'ora prima di vedere una virgola luminosa nel cielo, tanto non c'è fretta.
Non desidero altro che essere qui.
Ora.
2 commenti:
Toni, dovresti lavorare seriamente ad una raccolta sul tema del viaggio. Ispirazioni, fotografie, schizzi a matita, assurdi scambi di idee con gente del luogo. Questi diari di bordo sono il piacevole frutto del desiderio di scoprire posti nuovi e raccontarne le visioni. "Faccio un giretto dentro il centro storico del paese, munito di porta medievale e viuzze in saliscendi, con case colorate come in un quadro naif" Anche a me piace molto osservare. Ho comprato di recente una reflex, una Nikon D5000, mi son deciso a fare il grande passo. Adesso tento di smussare gli equilibri settimanali, per ritagliare uno spazio dedicato al nuovo diletto. Se hai piacere un giorno ti invio qualche scatto, amo i paesaggi, gli scorci di natura.
Tornando al brano in esame, in realtà trovo l'incipit un po' macchinoso, come se la vera cambiale da firmare sia la preparazione della scena. Hai descritto una sequenza di eventi e circostanze con la meticolosità con cui ci si accinge a preparare uno zaino in previsione di una trasferta. O forse semplicemente sento una ripetizione di altre tue precedenti avventure. Il resto mi piace molto. Quando la pedalata va regime, viene fuori il cuore del ciclista, la prova di carattere. Ci son tratti deliziosi che ho gustato con grande partecipazione. Ad esempio lo scambio di battute con il contagiri "Amici come prima?". Ed il momento di sconforto, quando le forze sembrano mancare. "Perché non giro la bici e torno a Malaucene? Non me la sento. Che devo dimostrare? Che ce la posso fare. A fare cosa? A farcela. A fare cosa, prego? A farcela." Forza Toni, ti aspetto alla curva, con la borraccia e lo striscione :)
Ai tempi del liceo, al paese dei miei genitori provavo a raggiungere in bici le frazioni adiacenti.
Ma non avevo né gambe, né fiato, e cosa ancora più grave non avevo il coraggio di abbandonare. Il gruppo di amici mi staccava già alla seconda curva. Alle varie auto che rallentavano preoccupate (per la bici ovviamente: pura solidarietà tra mezzi di locomozione), inventavo ogni volta un alibi: sete improvvisa, insetti fastidiosi.
Ancora una volta leggerti risveglia in me un fiume di ricordi.
Grazie.
Federico, invidio il tuo acquisto. In Irlanda, tanti anni fa, me ne andai in giro per tutta la vacanza con una yashica, un 50, un 28 e un 80-200, producendo 20 rollini di dia da 36 scatti. Quando viaggio in bici giro con una digitale, ma non è la stessa cosa. A volte, per fortuna, il soggetto compensa notevolmente la qualità. Se mi manderai qualche scatto, te se sarò grato.
In effetti l'inizio è estremamente pedissequo e lento, e palloso. A parziale discolpa: il mio intento era quello di far capire che questa vacanza, sulla carta, non s'aveva da fare. Alla sera, guardando le stelle, cambiai parere. Grazie per la tua lettura, Federico, e poi è un gran piacere leggere i tuoi commenti.
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