Ti specchi negli occhi di una trentenne, e capisci di essere un anziano. A poco servono le palestre, le creme antirughe, il controllo del peso, un aspetto "giovanile"(che brutto termine!), il sollievo di essere ancora in buona salute. Allora senti che la vita ti scivola via in fretta, e sei costretto a fare un bilancio.
E' ciò che succede a Ryan Bingham, alias George Clooney, protagonista del film "Tra le nuvole", film che mi pare molto bello.
Il fatto, per me, di essere coetaneo di "giooorg"(più che coetaneo, direi, visto che sono nato lo stesso giorno mese e anno), mi ha dato il valore aggiunto di seguire con grande interesse il film in questione, perché questa storia parla anche di un'età, l'età di mezzo.
Parlerò con voce narrante in prima persona, ipotizzando uno dei tanti punti di vista possibili.
Mi chiamo Ryan Bingham.
Vivo tra le nuvole, cambio di continuo aerei e giacche e alberghi. Alberghi. E non ho una dimora fissa.
Il mio lavoro è piuttosto incomprensibile. Mi pagano per dire a decine di persone in ogni giorno dell'anno, in ogni angolo d'America: hai perso il tuo lavoro, ma non ti devi scoraggiare; nella sedia in cui sei adesso, qualche tempo fa stava seduta una persona come te che avrebbe fatto in seguito grandi cose, che aveva colto tutto questo come un'opportunità e non come una sciagura, amico, va tutto bene. Va tutto bene un cazzo, mi rispondono. Ma io sono uno specialista in questo lavoro, queste persone non hanno reazioni violente nei miei riguardi, è già un successo, e riesco a fare tutto questo in un modo che definirei umano, al posto dei loro datori di lavoro che non hanno i coglioni per dire certe cose, che cercano di limitare al massimo i loro rapporti umani, soprattutto in certe occasioni.
Non ho una relazione fissa. Mi incontro, a seconda dei cambi di città, con una donna che mi vede solo di notte; ci ripariamo, protetti dagli improbabili ombrellini di soft-drinks, oppure sfidiamo impavidi il vento del condizionatore di una camera d'albergo. Io e lei, due parentesi fatte l'uno per l'altra che scopano alla grande.
Sì, io sono una parentesi. Vivo qui, di aereo in aereo, tra le nuvole. A volte bello, molte altre meno. Non ho nemmeno le radici aeree di un'orchidea, no. Le radici non le ho affatto.
Immaginavo di essere una parentesi, ma quando te lo dicono in faccia fa un altro effetto. L'avevo intuito l'altra sera. Stavo davanti ad un auditorium pieno di persone, e stavo tenendo uno di quei corsi motivazionali del cavolo. Parlavo di relazioni interpersonali utilizzando una metafora: parlavo di uno zaino. Sì, uno zaino legato alla schiena in cui proponevo ai corsisti di inserire tutte le relazioni che abbiamo: da quelle insignificanti come gli incontri occasionali di un'ora o di un giorno, agli amici lontani, ai parenti, agli amici importanti a cui confidi i tuoi segreti e i tuoi sfoghi, all'amante, infine alla persona con cui vorresti trascorrere il resto della tua vita. Mi sono reso conto, mentre parlavo, che il mio zaino è mezzo vuoto. In questo corso motivazionale dovevo far capire ai partecipanti che con uno zaino troppo pieno non ce la fai a muoverti, che le relazioni sono un impedimento. Non ce l'ho fatta. Ho invidiato gli zaini altrui, pieni di suocere incazzate e di mogli petulanti e di figli che ti saltano addosso appena torni a casa. Li ho invidiati, tutti quanti. Non ce l'ho fatta, li ho piantati tutti lì. Ho intuito, dicevo, ma mi sono riempito di speranze.
Mi ha trapassato la mente, in quel momento, la scena di un film, "Harry ti presento Sally": il momento in cui Harry corre a perdifiato, attraversa mezza New York per raggiungere Sally e dirle che quando ti rendi conto che vorresti trascorrere il resto della vita con una persona, la persona che ami, vorresti cominciare quel nuovo capitolo della vita prima possibile. E così ho fatto io.
Vado all'aeroporto, prendo un aereo per Chicago, una macchina a noleggio, raggiungo casa sua, la casa di Alex, ho in mente tutto quello che ha detto Harry a Sally, e suono.
Alex mi apre, quasi una smorfia di dolore. Non è la stessa Alex che conosco; lei in genere sorride, è disinvolta, ospitale. Io dico "Ciao" e sorrido.
"Alex, chi è alla porta?"
"No, niente, un signore che ha sbagliato indirizzo..."
La porta si richiude.
Il giorno dopo Alex mi telefona incazzata. Come ti sei permesso. Scusa ma non sapevo che tu avessi un marito, dei figli...Ryan questa è la mia vita, tu sei solo una parentesi.
Una parentesi. Il finale di "Harry ti presento Sally", questo avrei invece desiderato.
I momenti dopo altri momenti, una somma di momenti che fanno mezza vita, poi aggiungi una piccola manciata di momenti, basta poco - il problema è che non sai esattamente quando - ed ecco che i desideri vanno a male, impazziscono, sanno di aceto. Ti rimane quel sapore di aceto, interrompi la conversazione e guardi il telefono come fosse un alieno.
E cadi tra le nuvole. Fino al prossimo aereo.
(Toni La Malfa)
E' ciò che succede a Ryan Bingham, alias George Clooney, protagonista del film "Tra le nuvole", film che mi pare molto bello.
Il fatto, per me, di essere coetaneo di "giooorg"(più che coetaneo, direi, visto che sono nato lo stesso giorno mese e anno), mi ha dato il valore aggiunto di seguire con grande interesse il film in questione, perché questa storia parla anche di un'età, l'età di mezzo.
Parlerò con voce narrante in prima persona, ipotizzando uno dei tanti punti di vista possibili.
Mi chiamo Ryan Bingham.
Vivo tra le nuvole, cambio di continuo aerei e giacche e alberghi. Alberghi. E non ho una dimora fissa.
Il mio lavoro è piuttosto incomprensibile. Mi pagano per dire a decine di persone in ogni giorno dell'anno, in ogni angolo d'America: hai perso il tuo lavoro, ma non ti devi scoraggiare; nella sedia in cui sei adesso, qualche tempo fa stava seduta una persona come te che avrebbe fatto in seguito grandi cose, che aveva colto tutto questo come un'opportunità e non come una sciagura, amico, va tutto bene. Va tutto bene un cazzo, mi rispondono. Ma io sono uno specialista in questo lavoro, queste persone non hanno reazioni violente nei miei riguardi, è già un successo, e riesco a fare tutto questo in un modo che definirei umano, al posto dei loro datori di lavoro che non hanno i coglioni per dire certe cose, che cercano di limitare al massimo i loro rapporti umani, soprattutto in certe occasioni.
Non ho una relazione fissa. Mi incontro, a seconda dei cambi di città, con una donna che mi vede solo di notte; ci ripariamo, protetti dagli improbabili ombrellini di soft-drinks, oppure sfidiamo impavidi il vento del condizionatore di una camera d'albergo. Io e lei, due parentesi fatte l'uno per l'altra che scopano alla grande.
Sì, io sono una parentesi. Vivo qui, di aereo in aereo, tra le nuvole. A volte bello, molte altre meno. Non ho nemmeno le radici aeree di un'orchidea, no. Le radici non le ho affatto.
Immaginavo di essere una parentesi, ma quando te lo dicono in faccia fa un altro effetto. L'avevo intuito l'altra sera. Stavo davanti ad un auditorium pieno di persone, e stavo tenendo uno di quei corsi motivazionali del cavolo. Parlavo di relazioni interpersonali utilizzando una metafora: parlavo di uno zaino. Sì, uno zaino legato alla schiena in cui proponevo ai corsisti di inserire tutte le relazioni che abbiamo: da quelle insignificanti come gli incontri occasionali di un'ora o di un giorno, agli amici lontani, ai parenti, agli amici importanti a cui confidi i tuoi segreti e i tuoi sfoghi, all'amante, infine alla persona con cui vorresti trascorrere il resto della tua vita. Mi sono reso conto, mentre parlavo, che il mio zaino è mezzo vuoto. In questo corso motivazionale dovevo far capire ai partecipanti che con uno zaino troppo pieno non ce la fai a muoverti, che le relazioni sono un impedimento. Non ce l'ho fatta. Ho invidiato gli zaini altrui, pieni di suocere incazzate e di mogli petulanti e di figli che ti saltano addosso appena torni a casa. Li ho invidiati, tutti quanti. Non ce l'ho fatta, li ho piantati tutti lì. Ho intuito, dicevo, ma mi sono riempito di speranze.
Mi ha trapassato la mente, in quel momento, la scena di un film, "Harry ti presento Sally": il momento in cui Harry corre a perdifiato, attraversa mezza New York per raggiungere Sally e dirle che quando ti rendi conto che vorresti trascorrere il resto della vita con una persona, la persona che ami, vorresti cominciare quel nuovo capitolo della vita prima possibile. E così ho fatto io.
Vado all'aeroporto, prendo un aereo per Chicago, una macchina a noleggio, raggiungo casa sua, la casa di Alex, ho in mente tutto quello che ha detto Harry a Sally, e suono.
Alex mi apre, quasi una smorfia di dolore. Non è la stessa Alex che conosco; lei in genere sorride, è disinvolta, ospitale. Io dico "Ciao" e sorrido.
"Alex, chi è alla porta?"
"No, niente, un signore che ha sbagliato indirizzo..."
La porta si richiude.
Il giorno dopo Alex mi telefona incazzata. Come ti sei permesso. Scusa ma non sapevo che tu avessi un marito, dei figli...Ryan questa è la mia vita, tu sei solo una parentesi.
Una parentesi. Il finale di "Harry ti presento Sally", questo avrei invece desiderato.
I momenti dopo altri momenti, una somma di momenti che fanno mezza vita, poi aggiungi una piccola manciata di momenti, basta poco - il problema è che non sai esattamente quando - ed ecco che i desideri vanno a male, impazziscono, sanno di aceto. Ti rimane quel sapore di aceto, interrompi la conversazione e guardi il telefono come fosse un alieno.
E cadi tra le nuvole. Fino al prossimo aereo.
(Toni La Malfa)
4 commenti:
Sì, tutto bene, tutto bello. Ma lui è un tagliatore di teste, di professione. Non riesco a metterlo da parte, questo particolare.
Hai ragione. Non è possibile ignorarlo, lui stesso durante il film si definisce un esemplare della famiglia degli squali. Ma io credo che non sia un caso che lo scrittore Walter Kim del romanzo omonimo del film abbia scelto questa stomachevole "professione" per il suo protagonista. Il tagliatore di teste che deve indottrinare la trentenne Anna Kendrick perché possa fare al meglio il suo lavoro è paradossalmente spiazzato dal suo ruolo di duro ed insensibile. La trentenne opera sullo squalo Ryan una specie di conversione: un ritorno a aspirazioni, a relazioni, a desideri, speranze che Ryan aveva dimenticato. Il desiderio di metter radici si fa sentire anche per Ryan, che rimane imbrigliato nelle questioni fondamentali dell'esistenza - e l'età anagrafica aiuta - indipendentemente dal giudizio morale che possiamo emettere su di lui.
Grazie tante per essere passata di qui.
Ti vedo bene come critico cinematografico di qualche rivista best-seller per signore assorte sulla poltrona di un acconciatore.
PS. non è dileggio, è un augurio...saresti un ottimo ghostwriter...una rivisitazione del primo Benigni quando recensiva sprofondato sulla poltrona arboriana de L'altra domenica...tanti anni luce fa...
Cletus, mi ricordo che l'orario in cui davano il pezzo di Benigni "critico cinematografico" era nel primo pomeriggio della domenica. Tanta era la voglia di vederlo, che spesso ritardavo l'appuntamento domenicale con gli amici. Grazie dell'augurio
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