Oggi è il due giugno 2007.
E’ l’inizio del cammino vero e proprio. Mi sento in una condizione di pura possibilità, tutto può accadere. Sono a Saint Jean Pied de Port, a duemila chilometri da casa, solo, con un vago obiettivo, una bici e tre zaini. E me stesso, le mie gambe, la mia testa. Un misto di gioia, curiosità, paura, proprio come ieri pomeriggio, solo un poco più di gioia e un po’ meno timore. Guardo fuori della finestra dell’albergo, il cielo è coperto. Può accadere, per esempio, che oggi piova sui Pirenei. Finisco di sistemare gli zaini sulla bici, faccio una colazione da spavento. Croissant, un bricco di latte, uno di caffè, marmellatine, burro, pane tostato, succo d’arancia, sulla tavola avanza solo una bustina di zucchero. Parto. Ci sono due strade, appena fuori del paese. Una passa sopra il cocuzzolo del monte su strada sterrata, l’altra passa per Valcarlos, un po’ più bassa su strada asfaltata. Prendo quella asfaltata, anche perché sulla guida al cammino si consiglia di non fare la strada più alta in caso di pioggia, in qualsiasi periodo dell’anno. La pendenza non è forte, la salita è costante. Appena lasciato Saint Jean Pied de Port comincia un bosco, che di tanto in tanto lascia spazio a pascoli, a mucche e vitelli che alternano lo sguardo tra il terreno e me. Eppure dovrebbero essere abituati a veder passare gente. Dopo circa un’ora qualche casa e dei cartelli mi annunciano la fine della Francia e l’inizio della Navarra. Le zone di confine. Qui sei con i francesi, fai un passo più in là e senti parlar spagnolo. Oggi c’è continuità territoriale, un tempo la frontiera, il gioco delle guardie e ladri, le storie e le leggende sui contrabbandieri, di uomini che camminavano di notte fino allo sfinimento, sfidando altri uomini ed i Pirenei, imprecando contro dio ed il cielo tutto. Un bel giorno arriva Schengen, poi la moneta unica ed il gioco è finito.
Comincia a piovere. Prima una pioggia fine, impercettibile, poi sempre più forte, insistente. Mi metto la felpa, il k-way. Fa freddo. Mi metto anche una calzamaglia, il cappello sotto il caschetto. Ho vaghe sembianze del comandante Nobile in procinto di esplorare la calotta polare. La valle si fa più stretta, la striscia d’asfalto si apre a forza sul versante del monte tappezzato di fittissimo bosco, non entrerebbe nemmeno uno spillo. C’è la nebbia, adesso. Vedo all’improvviso prendere forma due signori in cammino con un poncho impermeabile addosso.
Mentre li supero, uno dei due si volta verso di me con il viso gocciolante di pioggia e mi sorride esclamando:
“Buen camino!”
“Buen camino!” rispondo io.
Dopo la prima apparizione, mi aspettano altri incontri con pellegrini a piedi o in bici. Il sorriso è il denominatore comune. La salita non molla, la pioggia nemmeno. In fondo la nebbia accresce il senso di imprevedibilità, propria dell’inizio dei viaggi, vedi le cose solo nel momento in cui ti ci trovi, impossibile pianificare. Sto pedalando da diciotto chilometri, vado a meno di dieci chilometri l’ora, sto raggiungendo i mille metri, la salita non molla, non molla la pioggia, arriva la fatica, ma non insopportabile. Questa valle – e anche il primo paese della Navarra – è chiamata Valcarlos, in onore di Carlo Magno. Da questi luoghi trae origine la tradizione dei pupi della mia – mia almeno per origine, per metà sangue che mi scorre nelle vene, e per il bene che voglio a quella terra - Sicilia, a tremila chilometri da qui, che raccontano le storie dei paladini di Francia. Onore ai paladini di Francia, e onore ai loro antagonisti, i Mori, gli antichi Arabi che tanta bellezza e civiltà hanno lasciato nei posti in cui hanno vissuto, come nel nostro meridione e in tutta la Spagna. I miei pensieri - complice la fatica – si abbandonano alla solennità del luogo, alla traduzione di letture - scarne cronache sui libri di storia - in pezzi di realtà - angoli di cielo e terra, profumo di muschio e abeti, e di vento, vento che man mano che si sale comincia a farsi sentire – che ti danno un’esperienza profonda, un sentire a tutto spessore, con tutti e cinque i sensi. Raggiungo l’alto de Ibaneta, il passo a 1100 metri. Scendo velocemente, la ruota anteriore mi schizza acqua terrosa sul k-way, e in qualche chilometro arrivo a Roncisvalle, e qui il pensiero va ad Rolando, alla sua spada, al suo Olifante, alla retrovia presa in trappola. E’, in effetti, un luogo ideale per un agguato.
Raggiungo l’albergo del pellegrino, la reception è in uno stanzone lungo e stretto con muri in pietra, un tavolone in fondo e panche lungo i muri, popolate di umanità variegata - inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, giapponesi, americani - e di vestiti inzuppati di pioggia appoggiati su stendini di fortuna, e su qualche sedia. C’è calore, parole dette a bassa voce, sorrisi e sguardi. C’è comunione di intenti, un obiettivo comune, Santiago di Compostela..
Vado al tavolone in fondo dove ottengo da una gentile senorita la mia credencial del camino, un importante cartoncino pieghevole che attesta la mia condizione di pellegrino e mi dà diritto a dormire negli albergues, e il mio primo sello, il timbro che dimostra che sono passato di qui, da Roncisvalle. Mi cambio la maglia, e mi fiondo all’osteria vicina. Spolvero in poco tempo una zuppa di legumi, poi pesce arrosto con patate, un budino, acqua, vino, caffè, tutto a quindici euro.
Esco, rimetto i bagagli sul portapacchi e riparto. Qualcosa è cambiato, un cambiamento repentino, di quelli che avvengono solo in montagna: il cielo si è aperto qua e là, lasciando qualche sprazzo di blu intenso, le nubi sono meno minacciose, non piove. Mi aspetta una lunga discesa, la valle si apre, ritornano i pascoli, l’aria ora è tersa.
Discesa a capofitto, poi percorso vario con qualche saliscendi non impegnativo, segnato da fiumiciattoli. Ho imparato che quando con un ponte attraversi un corso d’acqua, finisce la discesa e comincia la salita. In un terreno collinare o montuoso è sempre così.
Raggiungo la periferia di Pamplona, perdo la fatidica freccia gialla che dà sempre la giusta via, passo per il centro, decido di non addentrarmi nel centro storico - non so, non mia attira più di tanto, e poi è meglio che faccia ancora strada, vorrei arrivare sabato 9 giugno a Santiago, so che non sarà facile e che devo percorrere almeno un centinaio di chilometri al giorno per sperare di farcela. Intuisco, anche se sono all’inizio del viaggio, che il Camino non è delle grandi città: è dei piccoli borghi, dei campi che si perdono a all’orizzonte, dei monti, dei sentieri ingoiati nella V di due colline. Le città sono un semplice corollario.
Mi perdo nella periferia, non riesco a trovare il Camino, dopo più di mezz’ora – nella quale rischio seriamente di entrare in autostrada – trovo una provinciale che mi porta verso l’alto del Perdon, risalendo a 800 metri di altitudine, in mezzo a campi di grano sferzati dal vento che danno riflessi cangianti di luce solare. E’ qui che mi prende un’emozione intensa, frutto di un incontro: un’aquila sopra di me, che volteggia e pare quasi che mi segua. Questo simbiotico stato di grazia – i volteggi del rapace che hanno la mia stessa direzione, chissà se il rapace gode della mia presenza, mi piacerebbe – dura cinque minuti buoni, e mi sento grato a quell’essere colmo di eleganza, mi sento grato alla vita di essere qui. Lo seguo con gli occhi finché non si perde all’orizzonte. Il cielo è ancora nuvoloso, ma queste son nuvole allegre, l’aria è fresca, per fortuna qui il sole tramonta più tardi che in Italia, potrò vedere di raggiungere Puente de la Reina. Delle pale a vento per l’energia eolica mi accolgono in cima al colle, un rumore sordo, continuo, un vento che mi sospinge alle spalle. Altra discesa a capofitto, Puente de la Reina è a una ventina di chilometri. La raggiungo, ho percorso 102 chilometri, sono stanco e sono quasi le nove di sera, entro nell’albergo del pellegrino. La reception è già chiusa, faccio il giro delle camerate, c’è un letto non contrassegnato da sacchi a pelo o zaini, solo una coperta, è libero, appoggio un mio zainetto. Ho una fame tremenda, farò la doccia in fretta per assicurarmi una cena abbondante. Il sole tramonterà verso le nove e venti.
Dopo una cena a base di bocadillos e tapas, rientro all’albergo del pellegrino, e mi rendo conto che il letto che ritenevo libero è occupato, la coperta era il segnaposto di un signore.
Dovrò dormire per terra con il sacco a pelo senza materassino.
Non mi importa niente, quell’aquila mi terrà compagnia. Nei miei sogni, nel mio immaginario.
Il cammino è appena iniziato, a domani.
Leggi Il mio Cammino di Santiago-3
E’ l’inizio del cammino vero e proprio. Mi sento in una condizione di pura possibilità, tutto può accadere. Sono a Saint Jean Pied de Port, a duemila chilometri da casa, solo, con un vago obiettivo, una bici e tre zaini. E me stesso, le mie gambe, la mia testa. Un misto di gioia, curiosità, paura, proprio come ieri pomeriggio, solo un poco più di gioia e un po’ meno timore. Guardo fuori della finestra dell’albergo, il cielo è coperto. Può accadere, per esempio, che oggi piova sui Pirenei. Finisco di sistemare gli zaini sulla bici, faccio una colazione da spavento. Croissant, un bricco di latte, uno di caffè, marmellatine, burro, pane tostato, succo d’arancia, sulla tavola avanza solo una bustina di zucchero. Parto. Ci sono due strade, appena fuori del paese. Una passa sopra il cocuzzolo del monte su strada sterrata, l’altra passa per Valcarlos, un po’ più bassa su strada asfaltata. Prendo quella asfaltata, anche perché sulla guida al cammino si consiglia di non fare la strada più alta in caso di pioggia, in qualsiasi periodo dell’anno. La pendenza non è forte, la salita è costante. Appena lasciato Saint Jean Pied de Port comincia un bosco, che di tanto in tanto lascia spazio a pascoli, a mucche e vitelli che alternano lo sguardo tra il terreno e me. Eppure dovrebbero essere abituati a veder passare gente. Dopo circa un’ora qualche casa e dei cartelli mi annunciano la fine della Francia e l’inizio della Navarra. Le zone di confine. Qui sei con i francesi, fai un passo più in là e senti parlar spagnolo. Oggi c’è continuità territoriale, un tempo la frontiera, il gioco delle guardie e ladri, le storie e le leggende sui contrabbandieri, di uomini che camminavano di notte fino allo sfinimento, sfidando altri uomini ed i Pirenei, imprecando contro dio ed il cielo tutto. Un bel giorno arriva Schengen, poi la moneta unica ed il gioco è finito.
Comincia a piovere. Prima una pioggia fine, impercettibile, poi sempre più forte, insistente. Mi metto la felpa, il k-way. Fa freddo. Mi metto anche una calzamaglia, il cappello sotto il caschetto. Ho vaghe sembianze del comandante Nobile in procinto di esplorare la calotta polare. La valle si fa più stretta, la striscia d’asfalto si apre a forza sul versante del monte tappezzato di fittissimo bosco, non entrerebbe nemmeno uno spillo. C’è la nebbia, adesso. Vedo all’improvviso prendere forma due signori in cammino con un poncho impermeabile addosso.
Mentre li supero, uno dei due si volta verso di me con il viso gocciolante di pioggia e mi sorride esclamando:
“Buen camino!”
“Buen camino!” rispondo io.
Dopo la prima apparizione, mi aspettano altri incontri con pellegrini a piedi o in bici. Il sorriso è il denominatore comune. La salita non molla, la pioggia nemmeno. In fondo la nebbia accresce il senso di imprevedibilità, propria dell’inizio dei viaggi, vedi le cose solo nel momento in cui ti ci trovi, impossibile pianificare. Sto pedalando da diciotto chilometri, vado a meno di dieci chilometri l’ora, sto raggiungendo i mille metri, la salita non molla, non molla la pioggia, arriva la fatica, ma non insopportabile. Questa valle – e anche il primo paese della Navarra – è chiamata Valcarlos, in onore di Carlo Magno. Da questi luoghi trae origine la tradizione dei pupi della mia – mia almeno per origine, per metà sangue che mi scorre nelle vene, e per il bene che voglio a quella terra - Sicilia, a tremila chilometri da qui, che raccontano le storie dei paladini di Francia. Onore ai paladini di Francia, e onore ai loro antagonisti, i Mori, gli antichi Arabi che tanta bellezza e civiltà hanno lasciato nei posti in cui hanno vissuto, come nel nostro meridione e in tutta la Spagna. I miei pensieri - complice la fatica – si abbandonano alla solennità del luogo, alla traduzione di letture - scarne cronache sui libri di storia - in pezzi di realtà - angoli di cielo e terra, profumo di muschio e abeti, e di vento, vento che man mano che si sale comincia a farsi sentire – che ti danno un’esperienza profonda, un sentire a tutto spessore, con tutti e cinque i sensi. Raggiungo l’alto de Ibaneta, il passo a 1100 metri. Scendo velocemente, la ruota anteriore mi schizza acqua terrosa sul k-way, e in qualche chilometro arrivo a Roncisvalle, e qui il pensiero va ad Rolando, alla sua spada, al suo Olifante, alla retrovia presa in trappola. E’, in effetti, un luogo ideale per un agguato.
Raggiungo l’albergo del pellegrino, la reception è in uno stanzone lungo e stretto con muri in pietra, un tavolone in fondo e panche lungo i muri, popolate di umanità variegata - inglesi, francesi, spagnoli, tedeschi, giapponesi, americani - e di vestiti inzuppati di pioggia appoggiati su stendini di fortuna, e su qualche sedia. C’è calore, parole dette a bassa voce, sorrisi e sguardi. C’è comunione di intenti, un obiettivo comune, Santiago di Compostela..
Vado al tavolone in fondo dove ottengo da una gentile senorita la mia credencial del camino, un importante cartoncino pieghevole che attesta la mia condizione di pellegrino e mi dà diritto a dormire negli albergues, e il mio primo sello, il timbro che dimostra che sono passato di qui, da Roncisvalle. Mi cambio la maglia, e mi fiondo all’osteria vicina. Spolvero in poco tempo una zuppa di legumi, poi pesce arrosto con patate, un budino, acqua, vino, caffè, tutto a quindici euro.
Esco, rimetto i bagagli sul portapacchi e riparto. Qualcosa è cambiato, un cambiamento repentino, di quelli che avvengono solo in montagna: il cielo si è aperto qua e là, lasciando qualche sprazzo di blu intenso, le nubi sono meno minacciose, non piove. Mi aspetta una lunga discesa, la valle si apre, ritornano i pascoli, l’aria ora è tersa.
Discesa a capofitto, poi percorso vario con qualche saliscendi non impegnativo, segnato da fiumiciattoli. Ho imparato che quando con un ponte attraversi un corso d’acqua, finisce la discesa e comincia la salita. In un terreno collinare o montuoso è sempre così.
Raggiungo la periferia di Pamplona, perdo la fatidica freccia gialla che dà sempre la giusta via, passo per il centro, decido di non addentrarmi nel centro storico - non so, non mia attira più di tanto, e poi è meglio che faccia ancora strada, vorrei arrivare sabato 9 giugno a Santiago, so che non sarà facile e che devo percorrere almeno un centinaio di chilometri al giorno per sperare di farcela. Intuisco, anche se sono all’inizio del viaggio, che il Camino non è delle grandi città: è dei piccoli borghi, dei campi che si perdono a all’orizzonte, dei monti, dei sentieri ingoiati nella V di due colline. Le città sono un semplice corollario.
Mi perdo nella periferia, non riesco a trovare il Camino, dopo più di mezz’ora – nella quale rischio seriamente di entrare in autostrada – trovo una provinciale che mi porta verso l’alto del Perdon, risalendo a 800 metri di altitudine, in mezzo a campi di grano sferzati dal vento che danno riflessi cangianti di luce solare. E’ qui che mi prende un’emozione intensa, frutto di un incontro: un’aquila sopra di me, che volteggia e pare quasi che mi segua. Questo simbiotico stato di grazia – i volteggi del rapace che hanno la mia stessa direzione, chissà se il rapace gode della mia presenza, mi piacerebbe – dura cinque minuti buoni, e mi sento grato a quell’essere colmo di eleganza, mi sento grato alla vita di essere qui. Lo seguo con gli occhi finché non si perde all’orizzonte. Il cielo è ancora nuvoloso, ma queste son nuvole allegre, l’aria è fresca, per fortuna qui il sole tramonta più tardi che in Italia, potrò vedere di raggiungere Puente de la Reina. Delle pale a vento per l’energia eolica mi accolgono in cima al colle, un rumore sordo, continuo, un vento che mi sospinge alle spalle. Altra discesa a capofitto, Puente de la Reina è a una ventina di chilometri. La raggiungo, ho percorso 102 chilometri, sono stanco e sono quasi le nove di sera, entro nell’albergo del pellegrino. La reception è già chiusa, faccio il giro delle camerate, c’è un letto non contrassegnato da sacchi a pelo o zaini, solo una coperta, è libero, appoggio un mio zainetto. Ho una fame tremenda, farò la doccia in fretta per assicurarmi una cena abbondante. Il sole tramonterà verso le nove e venti.
Dopo una cena a base di bocadillos e tapas, rientro all’albergo del pellegrino, e mi rendo conto che il letto che ritenevo libero è occupato, la coperta era il segnaposto di un signore.
Dovrò dormire per terra con il sacco a pelo senza materassino.
Non mi importa niente, quell’aquila mi terrà compagnia. Nei miei sogni, nel mio immaginario.
Il cammino è appena iniziato, a domani.
Leggi Il mio Cammino di Santiago-3