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martedì 27 gennaio 2009

Il mio cammino di Santiago - 3

Sono a Puente della Reina, è il tre di giugno, mattina presto.
Non è stato facile dormire per terra, erano passati più di vent'anni dall'ultima volta. Ma il Camino riserva anche questo, l'imprevedibilità, nel bene e nel male; certo, un programma delle tappe da fare ci deve essere, devi anche sapere dove vuoi - più o meno - arrivare, ma in alcuni momenti hai la sensazione di essere una pagina, una pagina non scritta, bianca, vuota, in cui stanno per riversarsi storie, parole, esperienze con una disposizione ed un contenuto del tutto - non trovo parola migliore - imprevedibili.
Dalle sei in poi la camerata ha iniziato un progressivo svuotamento. Alle sei e mezzo, momento in cui esco dal mio bozzolo - sacco a pelo - con la speranza di assaporare il giorno con la leggerezza di una farfalla, siamo rimasti in quattro. Vado alla macchinetta a prendere una cioccolata calda, mi lavo, preparo gli zainetti, la bici. Quella dei bagagli - soprattutto in bici - è una routine, alla sera ed alla mattina, alle partenze ed agli arrivi, giorno dopo giorno, che non può essere evitata in alcun modo, è forse l'aspetto più noioso.
Esco, c'è il sole, un sole convincente che non lascia dubbi. Il sole obliquo crea forti contrasti di luce tra le case, nelle viuzze di Puente de la Reina. Il bar dove faccio colazione è invaso da pellegrini, le paste e i bocadillos vanno a ruba (è solo un modo di dire), dopodichè attraverso a piedi il ponte romano a tre archi, fatto a schiena d'asino, molto bello, e solido. Mi vien da pensare che nello stesso periodo in cui l'Europa era prevalentemente costituita da popolazioni che vivevano in capanne di legno, scaldavano la carne sotto la sella del cavallo, e adottavano rudimentali leggi e regole di convivenza, i Romani costruivano strade, acquedotti, ponti, istituivano il diritto romano (che viene ancora oggi studiato nelle scuole universitarie di tutto il mondo). Insomma, qualcosa di buono i nostri avi l'hanno pur fatto, e non solo nella penisola, ma anche nelle province, a migliaia di chilometri da Roma.
Comincio a pedalare.
Subito fuori dal paese, una strada asfaltata priva di traffico che si arrampica intorno ad un colle. Mi superano due francesi che avevo incontrato prima di Roncisvalle, provo a parlare con uno di loro, è una tragedia. Un'accozzaglia di frasi in francese, italiano, inglese (io non so il francese, lui non sa l'inglese), dopo imbarazzanti cenni d'intesa da idioti - che uno dice "ho capito" anche se l'altro sa benissimo che non ha capito - e larghi sorrisi privi di sostanza, ci salutiamo. A malapena ci siamo accordati sul fatto che quando esce il sole, fa presto a tornare caldo, insomma, discorsi da ascensore. Il tragitto si snoda su colline, stradine che vanno su e giù a pendenze ragionevoli, anche se ho capito che le cartine ingannano: mi sembrava quasi pianura ieri sera sulla guida, ma non è così, e del resto qui, in Spagna, le pianure praticamente non esistono. I paesaggi sono gradevoli, soprattutto quando arrivi in cima ad una collina, e puoi vedere le valli circostanti e i rilievi precedenti e successivi, e tiri il fiato. E poi giù, discesa, con il vento provocato dai trentacinque – a volte più di quaranta - all'ora, che accarezza e rinfresca.
Arrivo ad Estella alle dieci e mezzo, è un paese con molte chiese. Decido di visitarne una che vedo dalla strada, mi sembra la più importante, di stile romanico. Dopo una scalinata di diversi minuti, raggiungo il portone principale - al di sopra del quale c'è un rosone piuttosto imponente - ma il portone è chiuso. La chiesa è chiusa, che diavolo ci fa una chiesa chiusa alle undici di domenica mattina, e inoltre da lì vedo che quella più importante, quella con tre navate stile gotico e un chiostro con mostruose raffigurazioni sui capitelli (l'ho letto sulla guida), è in un altro punto del paese, saranno due chilometri, ma non ho più voglia di raggiungerla.
Kit-kat, acqua e riparto. Faccio una salita piuttosto ripida che mi porta fuori del paese - in parte mi consolo, la strada passa sopra il chiostro, mi soffermo a guardarlo dall'alto - poi una breve galleria e ricomincia la campagna. Il bello di questi posti è la solitudine. Tra un paese e l'altro spesso non c'è niente. Sono luoghi in cui ti perdi, perdi il riferimento spazio-temporale, e ti puoi ritrovare. A stretto contatto con te stesso, e spesso a guardarti dentro non è un bello spettacolo, le ombre affiorano, ma attraverso le ombre si possono evidenziare le parti luminose, con i chiaroscuri si acquista profondità, passi da due a tre dimensioni. E se accetti le tue ombre non hai più bisogno di un controllo serrato, la guardia si abbassa, le saracinesche si sollevano, e ti apri al mondo, le energie a tua disposizione aumentano. Perdersi, insomma, e ritrovarsi al tempo stesso. Sono a otto chilometri da Logrono, capitale di La Rioja, ne ho percorsi sessantatré, mi fermo a mangiare a Viana; bocadillos a base di tonno, pimentas, olive e tre lattine di Cocacola. Lunga discesa, e passo dal centro. Anche in questo caso l'arrivo in una città non è dei migliori. Percorro una strada a scorrimento veloce, mi inquieto un po', dopo il fiume Ebro giro a destra e arrivo al centro, dopo aver attraversato quartieri dormitorio che nulla hanno da invidiare all'hinterland milanese. Il centro lascia intravedere un bel corso principale, e una riuscita - a tratti - commistione tra antico e moderno. Più avanti una ciminiera in mattoncini, archeologia industriale, è stata felicemente restaurata e due palazzi ottocenteschi la lambiscono. L'uscita da Logrono è simile all'entrata: per sbaglio mi immetto nella tangenziale, in tutto e per tutto simile ad un'autopista, cerco di stare più a destra possibile, i camion mi fanno tremare. Dopo dieci chilometri penso che i miei problemi siano terminati, immettendomi nella N120, ma mi sbaglio, il disagio continua. Dopo qualche chilometro c'è un collo di bottiglia per lavori in corso, i camion mi fanno la barba ogni volta che passano. Mi fermo sul ciglio, non ne posso più, consulto la cartina per capire da dove passa il Camino che non ritrovo ormai da un paio d’ore. Guardo a lungo la cartina, scuoto la testa, ho perso lo spirito del viaggio.
"Ehi" un urlo, affievolito dal traffico pesante, ma netto, inequivocabile.
Mi giro, non vedo nessuno.
"Ehi" l'urlo proviene dalla mia sinistra, vedo tre ciclisti su una strada sterrata che mi fanno ampi gesti. Tra loro e me c'è la statale, e poi una larga striscia erbosa più bassa della strada, ancora più in là il sentiero. Loro stanno sul sentiero.
Faccio un cenno di saluto.
Loro sorridono e incalzano.
"Ehi! Come here!"
Faccio un cenno di intesa. Mi ci vuole qualche minuto prima di attraversare la statale, superare i poggi e buche nell'erba, e immettermi sul sentiero. Loro mi aspettano. Dopo qualche minuto di pedalata e conversazione in inglese con uno di loro, arrivo alla fatidica domanda:
"Where do you come from?"
"Italy. And you?"
"Italy? Ma guarda te. Anche noi."
Loro pensavano che io fossi canadese, avevano scambiato il mio k-way legato in malo modo sopra gli zaini per la bandiera del Canada.
Decidiamo di fare la strada insieme, almeno fino a Najera (anche loro sono partiti stamani da Puente De La Reina), poi si vedrà.
Con Michele, Mathias, e Paolo.
In un momento in cui avvertivo bisogno di umanità, il Camino me li ha fatti incontrare. Mi hanno chiamato. Caso o destino, chi lo sa, il fatto importante è che mi abbiano chiamato. E il fatto altrettanto importante è che io abbia risposto. Con loro la strada è più lieve, il percorso più sicuro, l'umore più allegro.
Arriviamo a Najera alle sette, dopo centoquattro chilometri. E' una piccola cittadina sviluppatasi lungo un fiume, al di sopra del quale incombono delle rocce argillose, dalle fogge mostruose. Sui tetti del paese molte cicogne.
L'albergo del pellegrino è pieno, ed io non posso permettermi di dormire un'altra notte in terra. Dopo qualche indugio - ci siamo appena conosciuti, in fondo - decidiamo di cercare insieme, tutti e quattro, un albergo. Troviamo una quadrupla in un albergo vicino, molto confortevole.
Dopo una buona cena e quattro passi, ci fiondiamo a letto, il mio sonno sarà profondo.
La sveglia è puntata alle sei e mezzo.
A domani.
Leggi il mio cammino di Santiago-4

venerdì 23 gennaio 2009

Senza roba



“Sono stanca.
Vorrei andare su quel monte, quello lì con le antenne. Una casetta, da sola, per un po'. Sola o con un uomo, il mio uomo. Senza roba.
Non riesco a pensare con quella, mi sballo e basta. E quando finisce la roba, mi sento una merda, vedo merda dappertutto. No, senza roba, fra l'altro l'ho diminuita di molto, ce la potrei fare bene a smettere. Io senza roba, pulita, come la mia immagine riflessa a lampi, via via che arrivano i fari delle auto. Ma vedo anche gli occhi cerchiati, stanchezza. Queste zeppe mi fanno male, me le tolgo, tanto lui non mi vede. Altopascio. Campagne, pioggia. Cartiera. Lavorare in cartiera? No, mi romperei le palle. Senti che puzza che manda fuori. No. Campagna, e basta. Galline, conigli, patate come a Costanza. Mi manca anche il mio mare, il mar Nero, nero come la notte che sta arrivando. Silenzioso. Qui è diverso: il mare, specie la domenica, è inganno, seduzione. Io ci riesco, so come sedurre, il linguaggio è internazionale: ho un bel culo, un bel viso, le tette sono dure come il marmo e mi stanno su da sole, non ci sono problemi. Vorrei rimorchiare un riccone, poi me lo sposo. Guarda che bella Lucca. Quelle mura solide, vorrei delle spalle solide che mi portassero via da questa merda. Non come questo vecchio qui davanti. Onesto, sì soprattutto onesto lo vorrei, che mi rispettasse anche quando è incazzato col mondo. Oddio, siamo già alla stazione. Potrei farmi scendere qua, prendere un treno e scappare. Ma dove? Dove andare? Se potessi, me ne andrei in un qualsiasi posto tranquillo. Nel mare della tranquillità, sulla luna. Senza roba, sì, col riccone che mi porta lo champagne a letto. Senza roba. Senza roba. Senza roba. Ma un bel riccone, ben dotato, sì, quello lo vorrei. Che mi volesse bene, oppure che non fosse geloso.
Arrivati, peccato. Mi sarebbe piaciuto farmi scarrozzare un altro po'. Il solito posto al buio, sotto gli alberi, perché bisogna far finta che noi non ci siamo, non esistiamo. A Lucca è così. Magda non c'è ancora.
"Qui va bene?"
"Guardi, lì." Mi sporgo con la mano e lui indugia con lo sguardo sulle mie cosce. "Lì, sotto gli alberi." Riparte, si ferma.
"Sono settanta euro."
"Va bene."
Il tizio mi guarda, sempre lì. Lo guardo. Azzardo.
"Oppure un pompino, se ti va."
Il tipo si scioglie in un sorriso. Mette le sicure, scivola nel sedile posteriore.
Oggi comincio a lavorare un quarto d'ora prima.
Un lampo nel cielo illumina la sua lampo, gli tiro fuori l'arnese. E' già pronto. Lo lavoro ben bene, poi lui mette le sue mani callose sui miei capelli, mi muove il capo per aumentare il ritmo. Gli scanso le mani, non le sopporto, mi rimetto al lavoro. Arriva il mugolio, sempre il solito, esce un fiotto caldo, salato. Come se da quello schizzo vedessi uscire settanta euro che tornano nella mia borsetta taroccata Fendi. Un kleenex, ci sputo dentro. Lui si tira su la lampo. Non sorride più.
Un gelido ciao e scendo di fretta, un po' traballante. Accidenti a queste zeppe.
Chiudo lo sportello.
Lo sportello diventa una porta, ritorno con la mente ad un'ora prima.

Sto uscendo, chiudo la porta di casa, c'è la Silvani. Accidenti a lei. Come metto il muso fuori casa, e chiudo a doppia mandata, eccola pronta con il sacco dei rifiuti. Anche oggi pomeriggio, figuriamoci. Lei mi guarda, io scendo. Più disinvolta possibile. Zeppe a parte, oggi nemmeno la minigonna stretta aiuta a scendere altezzosi. In questo ballatoio il rimbombo è infernale. Pensare che stavo fuori Costanza, in campagna, al silenzio. Uscivo diretta in cortile. Ci poteva essere la neve, a volte. C'era silenzio, e nessuna Silvani. Il taxi è arrivato.
Un uomo anziano, tante rughe, ma insomma, alto, ben messo, ai suoi tempi sarà stato un bell'uomo.
Mi scruta, punta dritto sulla minigonna, poi sposta il suo obiettivo sulle tette, e allarga.
"Buonasera, dovrei andare a Lucca, allo stadio"
"Bene" Il tipo schiaccia un pulsante sul tassametro, poi parte e gira a sinistra, imbocca la variante per l'autostrada.
"Adua 160. Adua 160. stazione Pistoia stazione Pistoia, cinque minuti. Adua 160 3 minuti. Cavour 36 Cavour 36" la litania prosegue per qualche minuto, poi il tipo spegne il radio-taxi. Mi concentro sul finestrino. E' quasi buio, come dentro di me.
Una serie infinita di vivai. Le silhouette delle piante mi sembrano soldati con il pennacchio in testa, mi fanno la guardia. Telepass, la barriera si alza, nemmeno una parola d'ordine. C'è la salita, casette sparse sul versante collinare. Un camion che arranca. Tutto converge verso il tunnel, ora ci sono dentro. Fino al collo. Quando sento quella sensazione lì, il tunnel, mi sento alla deriva, e allora vorrei spassarmela. Allargo le gambe, mi tocco. Qui al buio. Ho delle belle cosce. Sono una troia, no? Una che succhia cazzi e ne vorrebbe succhiare di più. Cazzi. cazzi. Cazzi. Cazzoni. Anche quelli un po' mosci, che rianimo con pazienza. La sfida sta nel saperli rianimare. Mi piego sul cazzo. Mi fermo ad osservare le venature. Appoggio la bocca a ventosa e succhio. Succhio, e ingoio. Mi sto toccando, il sedile mi copre, sono al buio, o quasi. Il dito sfiora sopra gli slip, sempre più veloce. Oooh. Una ripida discesa, la luce del sole che muore all'orizzonte, si intravede il mare, un monte con delle antenne, un'isola lontanissima nel mare. Quando vedi il mare tutto sembra più semplice. Il tassista mi guarda dallo specchietto. Stringo le gambe, appoggio le mani sulle ginocchia, riprendo il controllo, guardo fuori del finestrino. Il tipo adesso ritorna con lo sguardo sulla strada. Pianura. Strada diritta. Montecatini. Qui ci va Tatiana. Non se la passa bene nemmeno lei, no. Campi intervallati da capannoni industriali. Che noia. Chiesina Uzzanese, guarda un po', il Don Carlos; non faccio per vantarmi, ma in pista avevo tutti gli occhi addosso. Bei tempi quelli di Gianni al Don Carlos. Abbiamo fatto coppia fissa per un mese, poi mi ha scaricato, mi ha fatto conoscere Paolo. Vedrai. Sì, sì, vedo. Buono quello. Prima mi offre l'appartamento a Pistoia, poi mi procura un bel po' di roba. Gli dovevo diciottomila euro. Mi teneva per le palle. Per un anno avanti a coca ed ero. Oggi eros, lo scorso anno ero-ina per merito suo. Stronzo. Lui e i suoi festini. Mi dice: guarda, per l'appartamento non mi devi nulla. Solo qualche marchetta ogni tanto, te la devi fare con qualche mio amico. Paolo, non ne ho voglia. Mi prende il passaporto e me lo brucia con l'accendino davanti ai miei occhi. Poi mi molla uno schiaffone. Mi sembra un incubo, che ho fatto? Faccio per prendere la borsa, la mia valigia. Se esci da quella porta, ti faccio ammazzare. Ti trovo e ti faccio ammazzare. Oppure tramite degli amici che ho in polizia ti faccio marcire in galera. Esce dalla camera, io sono risoluta ad uscire, faccio appena in tempo a mettere due vestiti in valigia, a chiuderla e lui rientra. Con un braccio mi blocca da dietro, con l'altro mi appoggia un cotone sul naso. Buio. Senso di piacere, luci, un senso particolare di piacere, direi, che mi fa dimenticare la merda, lo squallore. Un senso di pace mai provato. Rivedo Costanza, è mattina, l'aria è limpida, il prato dove giocavo con Iuliana, la mia sorellina. Sono felice. Mi sveglio, sono sola, un punto di sangue rappreso sul braccio. Va avanti un mese questa storia. La porta è sprangata. Dopo appena una settimana sono docile come una cagnetta. Il cloroformio non è più necessario. Ogni tanto arriva un tipo e gli devo fare un pompino. Lui, Paolo, dopo dieci mesi mi fa il conto di diciottomila euro. Tutti i buchi che gli devo. La spesa, i vestiti, le scarpe. Sono senza documenti. All'undicesimo mese, il colpo di culo. Paolo viene arrestato. In casa sua gli trovano otto etti di coca. In polizia è cambiato il vento e lui non ha più protettori. Io non so cosa sia successo, sono a casa. Dopo una giornata in cui lo attendo invano, decido di scappare. Trovo alloggio da un'amica e comincio a far marchette per conto mio. Ora è quasi un anno che me ne sto da sola. I cazzi mi piacciono, non lo nego, e poi si fa poca fatica. Ma voglio uscire da tutta questa merda. Con la roba ho quasi smesso. Metto un po' di soldi da parte, mi compro una casetta e magari mi sposo. Un riccone, sì, che mi rispetti, però. Sì, che mi rispetti. E che mi porti su quel monte, quello con le antenne.
Io e lui.
Senza roba.
Senza roba.”
Greta fissò per qualche istante quelle parole. Intorno a quelle, alcune cerchietti tondi stingevano leggermente la pagina. Poi chiuse lentamente l'agenda, un 2003 era inciso sulla copertina in pelle. Si alzò e ripose l'agenda in una scatola rossa piena di foto di famiglia sbiadite e lettere provenienti da Costanza, per la maggior parte della sua sorella Iuliana. La ripose al di sotto di esse, e la scatola in un recesso della scrivania nascosto dalla chiusura di un cassetto. Poi guardò fuori della finestra. La luce dell'alba stava tingendo il cielo con venature rosse. Scese in cucina, si preparò un caffè, lungo. Con la tazza in mano, ritornò alla finestra. Il cielo era interessante. Una zona di transizione tra il blu notte del cielo e il giallo dell'orizzonte produceva incroci di colore che cambiavano di momento in momento, con la complicità di un paio di nuvolette. Nei momenti bui dell'esistenza, si era affidata a qualche alba come quella che aveva davanti. Se la vita è insensata, si era spesso domandata, perché sprecare tanta bellezza?
“Mamma.”
“Arrivo.”
Un sorso di caffè e si spostò in una cameretta. C'era un bimbo in pigiama che la guardava.
“Buongiorno cucciolo.”
“Babbo?”
“E' andato a lavorare prestissimo. Mentre dormivi ti ha dato un bacione come questo.”
“Mamma” rise sguaiato “mi strozzi.”
Continuò baciarlo ed abbracciarlo per un po'. Le sembrava impossibile. Quella vita così banale, così ordinaria, così prevedibile – un marito che va a lavorare, Matteo che va all'asilo da vestire, la colazione, il suo lavoro di commessa in un negozio, e poi la casa, il pratino da tagliare, il cinema il sabato sera – le sembrava un miracolo. Come se quel passato le avesse regalato un paio di occhiali magici, con i quali tutto ciò che vedeva era vivido, colorato, interessante.
Caricato di senso.